Un viaggio intimo in cinque tappe nel paese del Sol Levante, tra grattacieli, foreste di case basse e sperduti templi millenari. Quinto episodio

C’è un quartiere a Tokyo dove ci sono solo librerie. È situato nell’area di Chiyoda ed è sede di alcune tra le più importanti università del Giappone. Le sue botteghe – che vendono prevalentemente libri usati- sono sparse per ogni via e passeggiando è impossibile non fermarsi a sfogliare un vecchio libro che, pur non conoscendo il giapponese, cattura per la storia nascosta tra le sue pagine: orecchie, sottolineature, note a margine, cartoline, tracce lasciate da chi lo ha letto prima di te. Il nome di questa città dei libri è Jinbōchō e ha assunto l’aspetto attuale in seguito a un tragico incendio avvenuto nel 1913 che distrusse tutte le botteghe e i negozi storici. 

Fu Shigeo Iwanami, un docente universitario, che un giorno ebbe l’idea che avrebbe dato origine a un movimento culturale capace di trasformare l’intero quartiere. Motivato dalla sua passione per la conoscenza e l’istruzione, Shigeo decise di aprire una libreria che col tempo si sarebbe evoluta nella rinomata casa editrice Iwanami Shoten. Questa casa editrice divenne un punto di riferimento per molti, specializzandosi in pubblicazioni accademiche e in edizioni di opere classiche della tradizione letteraria giapponese. La libreria di Iwanami non era solo un luogo dove acquistare libri, ma un fulcro di attività intellettuale e una fucina di idee. Questo spirito di comunità e di condivisione culturale stimolò un’onda di innovazione nel quartiere. Presto videro la luce altre librerie, case editrici e caffè letterari cominciarono a sorgere qua e là per le vie del quartiere, diventando luoghi d’incontro per gli amanti della letteratura e della cultura. Shigeo Iwanami, con la sua semplice idea, aveva innescato una rivoluzione culturale che avrebbe lasciato un’impronta indelebile nella storia della sua comunità.

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Giappone, ultimo inning. Libreria a Jinbōchō

Oltre alle librerie a Jinbōchō si trovano anche vecchi negozi di antiquariato e cianfrusaglie senza tempo. Sono luoghi angusti, stretti, c’è odore di antitarme e tutte le cose sono stipate una accanto all’altra. Quando entri i negozianti ti sorridono, sembrano felici, salvo poi essere traditi dai loro occhi, dai quali traspare la diffidenza che serbano nei confronti dei turisti occidentali. Comincio a curiosare in giro; tra vecchie tazze in ceramica e statuette in rame trovo una vecchia pipa con il suo porta tabacco in pelle di serpente, mi guardo attorno e stando attento a non farmi vedere dalla negoziante lo prendo in mano e lo porto al naso. Ha l’odore pungente delle cose vecchie, quello che ti pizzica dentro le narici. Sento dei passi alle mie spalle e lo riposo subito come fossi un ladro. La signora si ferma a qualche metro da me. Sorride di nuovo, io ricambio e proseguo. Ci sono ventagli con stampe antiche, mobili in ebano e fermagli per capelli in madreperla. Mi vorrei soffermare su ogni oggetto, conoscere la sua storia e il periodo dal quale proviene, ma la presenza della negoziante che ora segue ogni mio minimo movimento mi mette fretta. Alla fine esco senza aver comprato nulla, fermandomi davanti alla vetrina a guardare delle maschere esposte. Sono quelle del teatro Nō, sembrano volti imbalsamati.

Quella è la forma di teatro tradizionale più antica e distintiva del Giappone. Le sue radici risalgono al XIV secolo e si tratta di un’arte performativa che combina musica, canto, danza e recitazione in un’esperienza esteticamente ricca e simbolica. A differenza di molte altre forme di teatro, il è noto per il suo ritmo lento, la sua atmosfera meditativa e l’uso di maschere elaborate. Queste maschere rappresentano una vasta gamma di personaggi e consentono agli attori di incarnarne appieno lo spirito, trasformando l’individuo in un mezzo attraverso il quale la storia si svolge. Musicalmente, il teatro è guidato da una combinazione di canti e strumenti tradizionali come il tamburo. Il canto, noto come yokyoku, ha un tono malinconico e spesso narra storie di amore, morte, demoni, spiriti e mitologia.

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Giappone, ultimo inning. Maschere del teatro

Essendo questi gli ultimi giorni del mio viaggio, ripenso a dove tutto è cominciato, a quella parola giapponese, Natsukashii, la nostalgia. Il teatro esprime molto bene questo sentimento che è fondamentale penetrare per avvicinarsi di più al Giappone e alla sua atmosfera. Molte delle storie presentate nel teatro ruotano attorno a spiriti e fantasmi del passato che tornano per rivivere momenti significativi o risolvere affari in sospeso. Queste narrazioni non sono solo racconti di spettri, ma rappresentano una profonda meditazione sulla natura transitoria della vita e sul desiderio di ritornare ai momenti passati.

Riprendo a camminare fino a quando non mi imbatto in una libreria con caffetteria. Entro e prendo posto a un tavolo, ordino del tè e tiro fuori un libro che mi sono portato dietro dall’Italia. Cerco di leggere, ma l’ambiente che mi circonda mi sembra più interessante. Ci sono delle signore che chiacchierano a bassa voce, per non disturbare, e un uomo a due tavoli da me che legge. Fa delle espressioni strane con la faccia, vorrei saperne di più su quello che sta leggendo, ma qui la lettura è considerata qualcosa di molto intimo. I giapponesi leggono ovunque e qualunque cosa: manga, riviste, fumetti per adulti, romanzi. Leggono sui mezzi, nei parchi, al ristorante, e mi è capitato di vedere perfino un tassista leggere un libro appoggiato al volante in coda a un semaforo. E quando compri un libro, alla cassa, la copertina viene incartata, cosicché nessuno possa sbirciarne il titolo. È un’usanza che trovo romantica. Sono un popolo riservato, dove ogni persona – nonostante sia costantemente immersa in luoghi affollati – ci tiene a mantenere i propri spazi, e la lettura è uno di questi. Ogni libro è un mondo segreto in cui rifugiarsi, attraverso cui estraniarsi e fuggire, anche solo per brevi attimi, dalla realtà. 

Così si vedono in giro anonimi libri bianchi, verdi, rossi. Mentre sorseggio il tè, tiro fuori il mio taccuino, quello dove ho appuntato tutte le cose che mi sono capitate durante questo viaggio. Lo apro al contrario per trovare subito la pagina bianca e appunto alcune osservazioni su Jinbōchō, l’odore della carta invecchiata, il sapore del tè, che lascia in bocca un sentore di fieno, poi trascrivo l’indirizzo di questo posto. Ed è in questo preciso istante che la nostalgia si fa viva, galoppa, ma non una nostalgia del passato, bensì del momento presente che sento già allontanarsi. Così scorro le pagine del taccuino all’indietro, gli appunti su Osaka e gli occhi di quel tonno, Kyoto e la sua pioggia, il tempio Ehieiji, fino alle prime pagine, a dove sono adesso, a Tokyo. Anch’io, come tutti i lettori seduti ai tavoli accanto, trovo una storia in cui rifugiarmi: quella di Shiro e Yachi. E le pagine del loro album dei ricordi compaiono davanti a me come fossero vecchie diapositive. Quei momenti sono diventati miei, e a ripesarci ne sento già la mancanza. Resto seduto a scrivere per un paio d’ore, poi esco e mi dirigo verso la stazione. Controllo l’ora e decido di ritornare al parco di Ueno per cercare ancora Shiro e Yachi. Tra pochi giorni lascerò il Giappone e incontrarli ancora una volta mi farebbe stare meglio, vorrei concludere questo viaggio con un altro dei loro aneddoti, con la promessa che un giorno tornerò a trovarli. 

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Giappone, ultimo inning. Uomo in yukata

Quando arrivo al parco il sole batte a picco sul prato verde e una leggera brezza fa vibrare le foglie sugli alberi. Cerco la panchina dove li avevo incontrati la volta scorsa. Non ricordo bene il tragitto che avevo fatto. Continuo a camminare e con lo sguardo cerco in ogni angolo del parco qualcosa di familiare. Quando sono completamente madido di sudore riesco a trovare quel posto, o almeno ci assomiglia, ma non sono sicuro. Mi siedo e aspetto. Fumo una sigaretta. Riprendo in mano il mio taccuino e appunto delle domande come se mi stessi preparando per un’intervista. Poi tiro una riga sopra a tutto, strappo la pagina, la butto via. Aspetto. Il tempo passa e loro non si vedono. Mi dico che sono stato stupido a sprecare un pomeriggio nella speranza di rincontrare quella coppia. Mi alzo scocciato con me stesso e mi inoltro per il parco finché arrivo davanti a un campo da baseball. Le alte reti di metallo delimitano il campo dove alcuni giovani ragazzi si stanno allenando. 

l baseball qui non è solo uno sport: è una passione, un rituale, una tradizione che si fonde profondamente con la cultura del paese. Introdotto nel Giappone dell’era Meiji alla fine del XIX secolo dagli americani, il baseball, o yakyū come viene chiamato localmente, ha affondato le sue radici nel tessuto sociale, trasformandosi in qualcosa di unico. L’approccio giapponese al baseball riflette anche l’etica del lavoro e la dedizione del paese verso la maestria. Gli allenamenti sono intensi e meticolosi, e i giocatori, anche quando non sono professionisti, dedicano ore alla perfezione di ogni aspetto del proprio gioco. 

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Giappone, ultimo inning

Mi fermo a osservarli. I battitori si susseguono, alcuni colpiscono la palla e lasciano subito cadere a terra la mazza per correre, sollevano la polvere come fossero cavalli da corsa. Un gruppo di persone li osserva da una fila di spalti. C’è un ragazzo più basso degli altri, porta degli occhiali tondi con le lenti spesse e tiene la mazza appoggiata sulla spalla. Quando viene il suo turno al primo lancio manca la palla, scuote la testa e grida qualcosa. Al secondo la manca ancora, poi arriva il terzo e ultimo lancio. Tiene la testa bassa, non vede nemmeno arrivare la palla, ma questa volta la colpisce, lascia cadere la mazza e inizia a correre. Gli altri stanno tutti immobili. È un fuoricampo. Dagli spalti un ragazzo comincia a esultare. Il battitore alza la testa e ci mette un po’ a rendersi conto di ciò che ha appena fatto. In mezzo al prato, al di là del campo, la palla bianca spicca in mezzo al verde, rotola per qualche istante, poi si ferma. I compagni di squadra corrono verso di lui e lo acclamano, alzando una grossa nuvola di polvere con i passi. Le loro divise bianche sporche di terra rossa si mescolano in un groviglio di braccia e gambe. Riconosco appena la testa del battitore, con i suoi occhiali dalle lenti spesse, mentre grida qualcosavhe scatena le risate dei compagni. Penso che se quel ragazzo fosse il loro figlio, Shiro e Yachi gli scatterebbero una foto e riempirebbero ancora una pagina del loro album. O forse non è un momento così importante, forse sono io che sto esagerando. Eppure mi pare di aver assistito a qualcosa di grandioso. Mi volto verso le panchine, come se li aspettassi comparire da un momento all’altro. Quando torno a guardare il campo è ricominciata la partita. Mi giro e mi dirigo verso l’uscita del parco.

Una volta ho letto che Tokyo è come se fosse stata distrutta e ricostruita da un’ enorme piovra che ha fatto dei propri tentacoli le strade. In effetti è vero, Tokyo non ha un ordine delle vie che aiuti a orientarsi. È una selva di cemento e perdersi è l’unica speranza per conoscerla. Ci sono posti dove magari ci capiti per caso e che poi, anche a distanza di pochi minuti, non riesci più a ritrovare, persi ormai tra le insegne, tra la gente. Ti chiedi se quel locale in cui ti sei fermato esiste davvero, torni indietro sui tuoi passi e speri di ritrovare ciò che hai lasciato. Tuttavia, a Tokyo questo raramente accade. Ogni cosa capita come un lampo che illumina per un istante il cielo e poi svanisce. Trentasette milioni di vite che ogni giorno si svegliano e vanno in giro per la città. Trentasette milioni di storie che accadono e finiscono e nessuno al mondo potrà mai conoscerle tutte. E i tentacoli della piovra si allargano sempre di più, inglobano città che diventano quartieri, sobborghi che diventano semplici vie. Mi chiedo come sia possibile avere delle radici, mantenere un legame con il passato, in un posto come questo.

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Giappone, ultimo inning. Tentacolo urbano

La risposta che mi dò alla fine di questo viaggio è frutto di quello che, forse, ho imparato dal Giappone: ovvero dare importanza agli spazi interiori, coltivare ogni sensazione come fosse il seme di una pianta. Respirare, ascoltare i rumori, bere una tazza di tè, fare cose semplici e dar loro importanza. Questo è il senso della nostalgia: sapere che quello che vivi adesso non ti capiterà mai più.

Mi sporgo da un cavalcavia che affaccia su una lunga strada trafficata. Il sole si sta nascondendo dietro ai palazzi. Chiudo gli occhi e cerco di respirare tutta l’aria che questo posto contiene così da non lasciarlo mai veramente. Dicono che il rischio più grande di un viaggio è quello di non partire, ma io credo che il rischio più grande sia quello di innamorarsi così tanto di un posto e di una cultura che, una volta tornato, ne sentirai la mancanza come se quel luogo e quella cultura ti fossero sempre appartenuti. Mentre guardo le macchine andare e venire, scorgo sul marciapiede una coppia di vecchietti. Lui zoppica, lei gli tiene la mano. Forse sono loro, penso, Shiro e Yachi, e allora vorrei corrergli dietro, gridare i loro nomi. Magari mi inviterebbero nella loro casa, per cena, e passeremmo la serata a sfogliare l’album dei ricordi. Invece resto fermo, mi accendo l’ultima sigaretta prima di ripartire, mentre Shiro e Yachi diventano ombre, e il crepuscolo tinge di viola i cieli di Tokyo. 


Testi e fotografie di Umberto Ferrero

Umberto Ferrero
Mi piacciono i libri sottili con la copertina tutta rossa. Ho fatto il cameriere, il paparazzo e il copywriter, ma la notte non dormo, sogno vecchie donne logorroiche, così al mattino scrivo le storie che mi raccontano. Lavoro alla scuola Holden e quando mi capita faccio un viaggio.

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