Il period drama di Netflix e il suo creatore
Fin dal suo principio la dinastia dei Windsor ha offerto del materiale per la costruzione di una vera e propria saga familiare degna di un grande romanzo. «Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo»: rileggendo il celebre incipit del romanzo familiare russo per eccellenza, è impossibile non notare che alla dinastia della ex-sovrana Elisabetta II gli elementi per un dramma familiare non mancano. Le sottili rivalità fra sorelle. Il perenne risentimento tra una madre, cresciuta con il detto ‘never complain never explain’, e un figlio che, invece, serba una forte emotività. La fine di un matrimonio e la lotta fra la donna abbandonata e vittima, e l’amante stereotipicamente considerata la villain. In principio, a parlare di tutto questo, anche in modo parecchio grossolano e bidimensionale, ci sono stati i Tabloid inglesi; poi la stampa internazionale, qualche romanzetto rosa a buon mercato e una sequela di film a basso costo per la televisione. Le vicende di casa Windsor sono sempre state in bilico tra una soap opera di pessimo gusto e una tragedia greca di Euripide. Ma, prima di Peter Morgan, nessuno aveva davvero colto nel segno e raccontato la storia della vita di Elisabetta, con il giusto connubio tra accuratezza storica (anche se non sempre rispettata) e fiction. Complici un budget stellare (130 milioni di dollari a stagione, rendendola la serie televisiva più costosa di sempre), i migliori attori britannici in circolazione, e una delicatezza espressiva straordinaria, grazie al team di sceneggiatori supervisionati da Morgan, viene così ritratto un personaggio a tutto tondo che è protagonista, insieme alla sua grande famiglia, del dramma targato Netflix, The Crown.
Potere Morgan, un anti-monarchico che spiega la monarchia
Spesso accade che un autore e un tema siano uniti per sempre. Osservando la biografia di Peter Morgan, ideatore della serie tv pluripremiata e giunta al termine lo scorso dicembre, salta agli occhi una bizzarra coincidenza. Il 6 settembre 1997, la data del suo matrimonio, coincide drammaticamente con la data del funerale di una delle personalità più influenti dell’ultimo decennio del XX secolo, nonché ex-membro della royal family, Lady Diana Spencer. Non stupisce che la donna con cui stava convogliando a nozze fosse una principessa di origine franco-boema, Anna Carolina von Schwarzenberg, e che suo suocero fosse un ex-primo ministro cecoslovacco, anzi: non fa che avvicinare Morgan a quel mondo ovattato, e royal, che ha rappresentato un chiodo fisso nella sua produzione.
Di The Crown, la serie tv incentrata sulla vita di Elisabetta II che lo ha portato al successo, Peter Morgan in alcune interviste ribadisce solo di averci «lavorato ogni singolo giorno per dieci anni, anche durante le vacanze nazionali o durante il Natale». Il period drama di punta di Netflix, che vanta numerose candidature e premi ai Golden Globes, tra cui l’ultimo, vinto da Elisabeth Debicki alla cerimonia di quest’anno, nella categoria Best Supporting Actress per il ruolo di Diana, non è altro che l’elaborazione di un progetto che l’autore ha sviluppato all’inizio della sua carriera, alla fine degli anni ’90. Prima ancora della monarchia è il Parlamento inglese il vero protagonista del suo racconto. Ciò che interessa a Morgan è sollevare la campana di vetro, scardinare le pesantissime porte che lasciano i sudditi al di fuori da quel mondo così anacronisticamente distante da quello reale e svelarne allo spettatore tutte le contraddizioni. Dentro e fuori, questi sono i due poli essenziali della sua narrazione. Leggi imprescindibili attuate da esseri umani volubili. È su questi passi che si muove la trilogia di film incentrati sulla carriera politica di Tony Blair, di cui fa parte anche il film The Queen (2006), che lo ha portato alla prima notorietà. Ed è sempre sui primi ministri e, in particolare, sull’incontro settimanale della regina con il primo ministro, che si è basato lo spettacolo teatrale The audience (2013).
«Mia madre aveva la stessa età di Elisabetta e ciò che ho scritto l’ho fatto in parte per comprendere la generazione di mia madre», spiega Morgan a proposito della creazione dello show. Della regina Elisabetta II, all’interno delle 6 stagioni, andate in onda tra 2016 e 2023, si vede uno spaccato di vita ben preciso: dal 1947, anno della morte improvvisa del padre, il re Giorgio VI, fino al 2005, anno del matrimonio tra divorziati avvenuto tra l’allora Principe Carlo e la consorte Camilla, simbolo inaugurale di un periodo di maggiore libertà di costumi. Con la morte di Elisabetta II, avvenuta nel settembre 2022 il personaggio fittizio creato nello show non ha fatto altro che storicizzarsi all’improvviso. Prima Claire Foy, poi Olivia Colman e infine Imelda Staunton, che fino ad allora l’avevano solo incarnata, sono diventate molto più reali di lei.
A chiunque abbia ritenuto che Peter Morgan sia sempre stato di parte, nel ritrarre Elisabetta II, va ricordato il breve discorso di ringraziamento che tenne in occasione del premio, nel 2007, nella categoria Migliore sceneggiatura: «Cosa dobbiamo fare per farci ascoltare dai nostri leaders? Nel 1997 due milioni di persone hanno affollato le strade di Londra, facendo fermare la più grande città d’Europa per convincere una donna testarda di settant’anni a volare da Aberdeen alla capitale. Questo per ricordarci che vale sempre la pena protestare». Durante la cerimonia di premiazione dei Golden Globes in cui Helen Mirren, prima memorabile interprete di Elisabetta II, si era aggiudicata una statuetta, Peter Morgan aveva lanciato una frecciatina poco velata all’allora recente alleanza di Blair con il presidente Bush per la guerra in Iraq. Chi ha voluto dipingere Morgan come un assiduo sostenitore della monarchia solo perché ha fatto di questo sistema il fulcro costante del proprio racconto, cade in errore. Benché l’autore non abbia mai pubblicamente rivelato il proprio schieramento politico, all’interno della sua produzione non si salva nessuno: a Morgan non interessa fare propaganda, ma, in quanto drammaturgo, il suo primo intento è rappresentare le contraddizioni di sistemi all’apparenza solidi, che tuttavia nascondono crepe che li rendono fragilissimi. Cosa succede alla solidissima casata reale quando una «mina vagante» come Lady Diana si inserisce al suo interno? Da buon drammaturgo quale è, a Peter Morgan interessano le luci e le ombre di personaggi ritratti nelle loro più intime e segrete differenze.
Tra fiction e realtà
Gli storici insegnano che un fatto, prima di entrare ufficialmente nelle pagine di un libro o nella coscienza collettiva, ha bisogno di essere osservato da una certa distanza. Ecco, se il racconto della vita di Elisabetta, nelle prime stagioni dello show poteva vantare quasi mezzo secolo di distanza, non si può dire la stessa cosa delle ultime e più recenti stagioni, ambientate tra anni ’90 e inizio 2000. A notare alcune inesattezze storiche, riscontrabili anche perché parte del pubblico c’era all’epoca in cui i fatti accadevano, è stata l’attrice Judy Dench, che in una lettera aperta al giornale Times dell’autunno 2022 esprimeva così le sue preoccupazioni: «Mentre molti riconosceranno The Crown per il brillante resoconto romanzato degli eventi che è, temo che un significativo numero di spettatori, in particolare all’estero, possa considerare la sua versione della storia come del tutto vera». La principale preoccupazione della Dench sembrava vertere sul fatto che alcuni utenti, in seguito alla morte di Elisabetta e in vista dell’incoronazione di Carlo III, che ha da sempre lottato con problemi di immagine e popolarità, potessero essere facilmente deviati dal racconto che The Crown tesse di Carlo stesso nella quinta stagione, tra il tampax-gate e altre vicende che gli spindoctors di Carlo e Camilla hanno impiegato decenni per sotterrare e che, perché raccontate nella serie tv, sono ritornate alle luci del giornalismo scadalistico. In particolare, la Dench sembrava riferirsi al presunto incontro tra John Major (Jonathan Lee Miller) e Principe Carlo (Dominic West) per spingere la regina all’abdicazione in favore del figlio. «Più il dramma si avvicina al nostro presente, più sembra disposto a confondere i confini tra accuratezza storica e crudo sensazionalismo», continuava Dench attaccando le scelte narrative di Peter Morgan, il quale aveva comunicato in più interviste il suo desiderio di non avvicinarsi troppo al presente ma rimanere in una sorta di distanza di sicurezza.
In The Crown, Peter Morgan sottolinea che non tutto è storia. E come si può dargli torto dal momento che è una serie che nasce, sì, con l’intento di fare storia, ma, prima ancora, di creare un prodotto per l’intrattenimento. Certo, è un intrattenimento di classe quello offerto dagli sceneggiatori dello show, ma resta pur sempre fiction. Forse, alcuni spettatori meno esperti hanno pensato che lo show si fosse sempre basato su fatti realmente accaduti, forti anche dell’ambientazione immersiva e della cura in ogni dettaglio per cui lo show si è, fin da principio, contraddistinto. Ma è impensabile concepire la serie, che pur si basa in parte su fatti reali e quasi aneddotici resi noti al grande pubblico, immune da parti completamente romanzate: sarebbe biografia e non più fiction. Si pensi al primo incontro tra Carlo e Diana, immerso nella cornice teatrale di Sogno di una notte di mezza estate. D’altronde come ha ribadito il principe Harry in alcune interviste «tra The Crown e i Tabloid è preferibile The Crown, perché almeno in quel caso si è certi che si tratti sempre e comunque di eventi in parte reali, che vengono drammatizzati».
La metafora del cervo: un inno alla fragilità umana
La storia raccontata da Peter Morgan è sempre la stessa: cambiano dei piccoli dettagli ma è evidente, attraverso i suoi lavori, che il suo punto di vista non cambia. Esso è rafforzato, soprattutto, dalla celebre ‘metafora del cervo’, un espediente narrativo che ritorna più volte.
Lo vediamo comparire per la prima volta in The Queen, film incentrato sulle fatidiche giornate tra il 31 agosto e il 6 settembre 1997, quando dopo la scomparsa di Lady Diana Spencer segue una profonda crisi tra parlamento e monarchia. Da un lato è ritratto il primo ministro, Tony Blair, che strumentalizza Diana per la sua campagna elettorale laburista soprannominandola «people’s princess», dall’altro vengono delineati i numerosi ripensamenti di Elisabetta II, fino alla decisione finale, per il bene della corona, in cui si convince a chinare il capo in segno di rispetto davanti al feretro di Diana, sfilante in una Londra in lutto.
La ‘metafora del cervo’ appare, qui, durante un momento di forte raccoglimento interiore: quando Elisabetta/Helen Mirren, costretta da un guasto alla sua jeep a fermarsi nel bel mezzo della brughiera scozzese, scoppia inaspettatamente a piangere. Solo la comparsa di un cervo di straordinaria bellezza la sorprende in quel momento di vulnerabilità. Elisabetta sente gli spari dei cacciatori in lontananza e intima al cervo di scappare. Si asciuga le lacrime col foulard e si accorge che il cervo si è salvato.
L’uso dell’immagine ritorna nella serie tv, in due momenti fondamentali. La prima nell’episodio ‘Balmoral test’ della quarta stagione, incentrato sul primo approccio di Lady Diana (Emma Corrin) con la famiglia reale. I parallelismi, all’interno dell’episodio, tra le battute di caccia e l’adescamento della giovane e ingenua Diana Spencer sono enfatizzati dalla ricerca quasi ossessiva di un cervo di rara bellezza, che al termine dell’episodio sarà ucciso e impagliato e posto come addobbo parietale in una delle sale del castello Balmoral, triste premonizione del destino della principessa. La seconda comparsa del cervo avviene nell’episodio ‘Dis-moi oui’ della sesta stagione, che mostra come, mentre Diana vive con Dodi Al-Fayed la sua favola dolceamara, il figlio William è a caccia per la prima volta insieme al nonno Filippo. Mentre Diana (Elisabeth Debicki) è inseguita dai paparazzi, il volto di William viene imbrattato, come da rituale, dal sangue del primo cervo ucciso nella sua prima battuta di caccia. Ancora una volta il marcato simbolismo non fa che giocare sull’ambiguità di significati che il cervo evoca: sacrificio e potere, innocenza e crimine. «I declare before you all that my whole life, whether it be long or short, shall be devoted to your service», procalmava una giovanissima Elisabetta II ed è questa crudele ma necessaria imparzialità a prevalere nell’immaginario di Peter Morgan: perché solo la corona deve sempre andare avanti. ♦︎