I giocatori sono esploratori. Vivono all’interno di un cerchio magico che ruota attorno a un messaggio. Esso può essere comunicato in maniera esplicita oppure richiede maggior dedizione da parte del giocatore perché nascosto e volutamente criptico. Richiede l’esplorazione degli angoli più remoti, dei poligoni più nascosti e a volte di quegli irraggiungibili pixel oltre il bordo. Ma se il giocatore è totalmente conscio della finitezza del mondo in cui vive la propria avventura virtuale, che cosa lo spinge a cercare oltre?
Periferie del level design
La figura del game designer può essere definita come un architetto delle scelte, ovvero colui che deve prevedere quali scelte il giocatore potrà o non potrà fare all’interno del gioco. Stabilisce quali contenuti saranno all’interno del gioco e quali non saranno presenti; passo passo definisce l’intera esperienza, lavorando sulle meccaniche di gioco, sulla narrativa quando presente, sull’estetica e sul comparto tecnico. Uno dei compiti più complessi è proprio quello di definire dei confini di gioco, oltre i quali il gioco non esiste. Periferie oltre alle quali il mondo virtuale crolla. Queste sono solitamente delimitate all’interno di tre tipologie di emozioni suscitate dal media stesso: le Fiction emotions, le Artifact emotions e le Gameplay emotions.
Le ultime sono riferite a quelle emozioni suscitate dal gameplay, quindi scaturite dalla modalità e dal genere di gioco; le A emotions sono manifestazioni emotive che derivano dall’estetica del prodotto, in termini di caratteristiche tecniche (es: fluidità dei movimenti, grafica, AI, ecc.). Ultime, ma non meno importanti, le F emotions sono legate al mondo immaginario e a tutto ciò che scaturisce al suo interno. Uno spazio sicuro che però, se ben costruito, può avere un forte impatto emotivo sul giocatore. Come è possibile dare una forma specifica a questi tre flussi emotivi? Delimitando dei limiti, dei confini. Per farlo vi sono diverse tecniche più o meno invasive nei riguardi dell’immersività del giocatore. Più il limite sarà giustificato all’interno del mondo virtuale e più l’equilibrio del cerchio magico reggerà.
Un esempio? Supponiamo di avere un gioco ambientato su un enorme continente esplorabile, circondato da un mare infinito. Un primo confine sarebbe quello di impedire all’avatar virtuale di esplorare tale mare. Come? Magari impostando un game over ogni volta che il giocatore cade in acqua. Questa soluzione è narrativamente giustificata? A seconda della risposta, l’integrità del cerchio magico può subire più o meno danni. Vediamo un altro esempio. Il protagonista incapace di nuotare, ha la possibilità di navigare attraverso un’imbarcazione: ora come si comportano i confini in questo caso? Alcuni giochi come Dredge ( Black Salt Games) hanno optato per una soluzione calzante per il mondo in cui sono ambientati: un enorme mostro marino inghiotte la barca e per il giocatore è game over. Altri invece adottano soluzioni più tecniche e meno valide in termini narrativi, come l’utilizzo di muri invisibili o mappe infinite, che danno il senso al giocatore di muoversi, ma che in realtà rimane fermo sul posto.
Oltre il bordo
Ma come mai questi confini sono così importanti? Oltre alla mera necessità legata al design, vi è una ragione maggiormente legata alla sfera emotiva. È esperienza di molti giocatori che quando un gioco diventava talmente coinvolgente da farti sentire parte di quel mondo, l’idea di separarsene appariva come una sorta di trauma. Terminata la trama principale, le trame secondarie e tutte le attività possibili, i giocatori continuavano a cercare contenuto. Non più al centro, ma ai limiti, ai bordi, oltre essi. Ore di gioco a cercare qualche informazione in più, qualche glitch che consenta di superare tali confini. Il tentativo folle di ottenere una lente per guardare quei pixel oltre il bordo.
Cosa spinge queste ricerche? L’idea che le ragioni più profonde del gioco e dei giocatori stessi siano proprio alle periferie del mondo, reale o virtuale che sia. La sensazione di scoperta, l’illuminazione della desolazione, la radice delle cose. Sembra filosofia spiccia, ma credo fermamente in questa ricerca vi sia un tentativo di rompere una piccola Matrix. Si tratta di individuare una zona di passaggio tra il virtuale e il reale, un punto in cui è possibile plasmare la realtà stessa solo per il fatto di scoprirne le verità più recondite. Un viaggio con pad alla mano e sguardo puntato all’orizzonte virtuale. Oltre il simulato mare infinito, oltre il bordo consentito, dritti a rompere il muro invisibile. ♦︎