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Alessandro Manzoni. Sì, lo so. Avete ancora gli incubi. Non appena avete letto il suo nome, scommetto che la vostra mente vi ha piazzato davanti agli occhi quel mattone tanto noioso che tutti abbiamo studiato a scuola: I Promessi sposi, «un romanzo palloso tanto» (così lo definisce la comica Anna Marchesini nello sceneggiato del 1990 andato in onda sulla RAI) che ogni tanto qualcuno propone di non far leggere più in classe e di sostituire con qualsiasi altra cosa, tanto è migliore a prescindere. Magari, però, piuttosto che rifiutare quel che non si comprende, sarebbe il caso di provare a capire non come attualizzare il romanzo – perché spesso si cade solo in ridicole forzature e banalizzazioni –, ma quali sono gli elementi che possono dare spazio a confronti e corrispondenze tra secoli, e soprattutto quanto si somigliano le vite, i pensieri e i sentimenti degli uomini col trascorrere del tempo. Spoiler: più di quanto immaginiamo.

Facciamo un attimo un salto nel Novecento: ricordate l’inetto di Svevo? Forse l’abbiamo studiato tutti con più interesse. È quello incapace di vivere e affrontare l’esistenza, che non riesce mai a risolversi, estraneo non solo a qualunque luogo in cui si trovi, ma addirittura a se stesso. È un profilo psicologicamente interessante tanto quanto pietoso. Aggrovigliato nei suoi propri lacci, il bello è che non è vittima di nessuno: non può incolpare che se stesso per la sua miserabile esistenza e per tutti gli slanci che non si è dato per migliorarsi la vita. Insomma, è impossibile non notare che abbia anche un grosso difetto di volontà. L’inetto ante litteram è don Abbondio, emblema della “banalità del male” a causa della sua imperturbabilità, vive in un tempo ciclico scandito dalle azioni quotidiane in cui stagna senza opporre resistenza, subendo un eterno ritorno dell’uguale (non a caso è uno dei pochi personaggi a non subire un’evoluzione) e rendendosi vittima di se stesso ancor prima che dei prepotenti. È un uomo che vive una “nuda vita”, squallida non perché si privi di tutto per consacrare la sua esistenza a Dio e servire la comunità, ma per la ragione opposta: l’unica sua preoccupazione è salvarsi la pelle, sempre (perciò ha deciso di farsi prete). Quando non si tratta dei suoi affanni, non patisce né compatisce. L’unico momento in cui gli tocca agire è quando deve proteggersi dai pericoli, ma se potesse, eviterebbe anche di muoversi per se stesso; sa di sbagliare, ma fa spallucce come per dire: «Cosa posso farci? Cosa volete da me?», e si nasconde dietro la sua mansuetudine, che prega sempre sia ripagata in meritata tranquillità. Al nostro vecchio curato, però, sfugge che a lui, da pastore, è affidato il compito di tenere gli occhi aperti sulla sua gente e invece lascia che il male si faccia. Manzoni tende a non giudicarlo perché, dopotutto, non ha «un cuor di leone», quindi non c’è molto da fare se non è coraggioso, però autorizza noi lettori a pronunciare «l’ardua sentenza». Anzi, di più: si augura vivamente che lo facciamo, perché non ha scritto per intrattenersi e intrattenerci, ma ha lanciato un messaggio servendosi di uno strumento come un altro, e qualcuno tra i «venticinque lettori» deve pur preoccuparsi di riceverlo.

Quel che fa don Lisander – così era conosciuto il nostro scrittore a Milano – è raccontare i logoramenti della società lombarda che non potrebbe star peggio perché si trova in uno scenario di guerra internazionale e stravolta da lotte intestine. È oppressa dall’esterno su due fronti: quello della peste e della dominazione spagnola; dall’interno, invece, è consumata dalle lotte per l’autoconservazione e dai prepotenti, le cui vessazioni rimangono sempre impunite; gli stessi Renzo e Lucia non hanno grandi poteri perché calati in un tempo escatologico in cui tutto ha un disegno divino e offrono il filo della propria vita in mano alla Provvidenza. Ciononostante, ognuno possiede uno strumento che, dall’inizio dei tempi, in ogni circostanza storica e umana, permette di distinguersi dagli altri in base al modo di stare al mondo, e cioè la discrezione, la capacità di distinguere bene e male e agire in maniera giudiziosa, possibilmente orientandosi verso il bene e soprattutto impedendo il compimento del male, che forse è peggio di farlo. Manzoni non fa distinzioni sociali tra i suoi personaggi e non predilige nessuno, ma se Renzo e Lucia non sono soltanto i protagonisti della sua storia, ma anche due a cui dimostra di tenere molto, forse un motivo c’è. Non è un populista, non regala ai due un finale da favola né li stravolge rispetto a com’erano all’inizio. Eppure, i due sposi sono portatori di valori da cui ancora oggi potremmo prendere esempio, chiaramente facendo attenzione e leggendo «col rampino».

Un personaggio come don Abbondio, appartenente al clero e quindi istruito, dimostra che avere una testa «bien pleine» non vuol dire avere una testa «bien faite», e quindi che due semplici operai, rispetto a simili persone – e, peggio ancora, rispetto a un uomo di Chiesa –, possono essere molto più in grado di vivere in società, oltre al fatto che non debbano per forza essere loro i personaggi grotteschi di cui ridere come si era sempre fatto fino ad allora (fatta eccezione per pochi autori, ad esempio Parini), perché ciò che li distingue è riuscire a trovarsi a un bivio e scegliere la strada giusta, mai quella che conviene. Renzo e Lucia hanno una morale spiccatamente cattolica sì, ma probabilmente, poiché figli di un autore pur sempre illuminista, ne avrebbero posseduto una anche senza essere credenti; tra l’altro, certi valori possono essere condivisi anche da chi non è religioso, perché si tratta di “saper campare”. Lo dice anche l’homo viator manzoniano, il giovane curioso che si augura che «il mondo vada un po’ più da cristiani», perché durante il suo viaggio ha fatto attenzione ai comportamenti altrui e spesso è rimasto sconcertato dalla furia del popolo, da chi agiva solo badando ai propri interessi e abbandonandosi all’istinto; e non è tutto: durante la peste l’egoismo umano è amplificato ed essere responsabili degli altri quando la tendenza è tutt’altro che altruista è segno di una «rivoluzione gentile» a cui il filatore non è stato sempre incline, ma che ha conosciuto nel tempo. Manzoni, infatti, non offre il prototipo di cristiano perfetto perché Renzo non è un santo, anzi: spesso, forte della sua fede, Lucia si ritrova a dover dissuaderlo quando il desiderio di vendicarsi del signorotto gli annebbia la vista e vorrebbe regolare i conti esercitando a sua volta la violenza. Lo perdonerà alla fine, guidato da padre Cristoforo, quando lo incontrerà moribondo al lazzaretto e in questo momento incomincerà a ristabilirsi l’equilibrio della narrazione.

Se è vero che la letteratura può educare ai sentimenti e allo stare al mondo, pensare che questo sia un romanzo come un altro e non dedicargli la giusta attenzione è un’occasione mancata per formare le coscienze che la scuola dice di avere tanto a cuore. Se si pensa che i Promessi sposi parlino in termini strettamente religiosi o che siano circoscritti a un’epoca, quindi ormai anacronistici, si va fuori strada: Manzoni, con molta semplicità, parla di giustizia e buonsenso, propone una serie di comportamenti e virtù che, se possedute da un individuo, fanno di lui un essere umano ancor prima che un vivente, e la differenza – lo assicurano Renzo e don Abbondio – non è poca. E molto di più è marcato il ruolo della fede, che spinge a farsi forza anche nei momenti più imbrogliati: è un meccanismo istintivo che nasce in un momento negativo quando non si ha via d’uscita e si avverte la necessità di difendersi dalla sensazione di sconfitta, oppure in un momento positivo, quando si cerca una direzione in cui incanalare la propria gratitudine e felicità. Basta riflettere: quante volte abbiamo fede in qualcosa che chiamiamo in altri modi che non siano Dio, tipo “universo”, “destino” o “futuro”? E quante volte li ringraziamo perché li crediamo responsabili dei piccoli miracoli che ci capitano, o dell’arrivo di qualcosa nella nostra vita? Quante volte ci sentiamo parte di qualcosa di più vasto e creature appartenenti a qualche essenza che non si dimentica mai di noi? Oppure, quante volte guardiamo al cielo perché crediamo in qualcosa o chiniamo gli occhi e preghiamo senza nemmeno accorgercene? E per preghiera non si intende recitare alcune formule fisse tra i banchi di chiesa, ma desiderare qualcosa e chiederlo raccogliendo tutte le forze che abbiamo in corpo. Pregare significa, tra le tante cose, dire: “per favore, vorrei”, “per favore, fa che”, e realizzare che abbiamo conosciuto noi stessi in base a quel che abbiamo voluto così fortemente. In fin dei conti, che i nostri desideri si realizzino o meno è poco importante, perché crediamo siano il punto d’arrivo, mentre forse non ne esiste veramente uno, ma quel che abbiamo in ogni istante presente è la vita. Si realizza che, mentre attendevamo con occhi vispi e speranzosi, non ci siamo limitati a esistere, ma siamo stati. Investiti di fede, abbiamo avuto una luce che si è irradiata tutta intorno senza che nemmeno ce ne accorgessimo. Perché noi, abituati a spiegarci l’esistenza inventando miti, abbiamo bisogno di qualcosa in cui credere e, che sia reale o no, se ci permette di sopportare la vita e addirittura amarla, quando ci va di lusso, è sempre legittimo, se non doveroso. ♦︎

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