L’adolescenza femminile per come ce l’hanno insegnata. Attraverso l’originale analisi di un’estetica, il saggio di Sara Marzullo perlustra i meandri più oscuri della fissazione culturale per le ragazze e decostruisce lo stereotipo.
Un letto d’ospedale. Una ragazza pallida che indossa un camice. Una frase che resterà impressa nell’immaginario: «È ovvio dottore, lei non è mai stato una ragazza di tredici anni». È l’inizio di The Virgin Suicides di Sofia Coppola: bastano pochi elementi, in fondo, per costruire un’estetica.
Che cos’è la scienza dell’apparire? Durante la metà del XVIII sec. il filosofo tedesco Alexander Baumgarten mette a punto alcuni studi sulla teoria del bello. Decide di intitolarli Aesthetica. Per Baumgarten l’idea del bello non è molto distante da ciò che riguarda una percezione confusa e frastagliata, come un sentimento. L’estetica, infatti, nasce come una scienza che si propone di cogliere la simmetria segreta e ineffabile che si instaura tra certe immagini. Quei temi ricorrenti che, se legati assieme, creano un senso, un’armonia nascosta in tutte le cose.
Quasi tre secoli dopo Baumgarten, tutto è diventato una questione di estetica. Non solo l’estetica che tiene assieme le opere d’arte di un certo artista, o che sta dietro al concept di un nuovo ristorante. Se ne parla soprattutto quando si tratta di ragazze. Forse perché, anche se indirettamente, ognuna si è posta questa domanda: «Come voglio apparire agli occhi degli altri?»
Basta solo aprire TikTok. Prima su Tumblr e poi sulle altre piattaforme social, le pagine o gli hashtag aesthetic hanno riempito la rete: sono raccolte di immagini che rientrano in temi precisi, capaci di emanare vibes che evocano determinati prodotti culturali o precise epoche storiche. Si parla, ad esempio, di Dark Academia, Victorian Goth, Barbiecore. Cambiano gli stili, ma una cosa resta uguale: la ragazza è posta al centro di ognuna di queste atmosfere. Le immagini scorrono sullo schermo del telefono: un prato, una coperta a fiori, un cestino da picnic? Si tratta, è ovvio, dell’estetica della Soft Girl Summer. La cucina di un cottage, una fetta di Victoria Sponge e una tazza di tè su una tovaglia a quadretti? Eccoci arrivati nel Cottagecore. Una foto mossa, il trucco colato, le unghie dipinte di nero. È lei, ecco la Sad Girl. Forse ha il cuore spezzato, una malinconia indicibile e sta leggendo Sylvia Plath. I film di Sofia Coppola sono la sua religione e ha un mistero che l’avvolge, che Sara Marzullo, nel suo libro d’esordio Sad Girl, La ragazza come teoria (edito da 66thand2nd) ha provato a svelare. Infatti, tutte queste rappresentazioni pericolosamente caricaturali, da cui veniamo bombardati, celano dietro la patina girly girl una lacerazione profonda. Sembrano solo ‘cose da ragazze’, ma Marzullo dimostra il contrario, scandagliando i fondali di estetiche che raccolgono tutti gli stereotipi che il patriarcato gli ha cucito addosso e che nel suo libro vengono strappati, uno a uno.
Tra tristezza e capitale
Nella messinscena della modernità, tutti recitano una parte. Le ragazze imparano a recitare la loro inconsciamente, non appena si sporgono verso il precipizio che corrisponde all’età adolescenziale. «Se c’è un palco, significa che c’è anche un dietro le quinte ed è quello spazio che volevo esplorare». Ecco che allora entrano in gioco gli immaginari culturali da cui attingere per creare il proprio personaggio. Infatti, il dietro le quinte dell’adolescente è formato da precisi modelli, che vengono assimilati da ogni ragazza, senza che ne sia troppo consapevole: «essere ragazze è qualcosa che ci è stato insegnato». Per sentirsi compresa la ragazza cerca, nei prodotti culturali, altre ragazze che devono avere un requisito: aver vissuto esperienze simili alle sue, essersi sentite come lei. Ecco che Internet facilita le cose. Infatti, ammette Marzullo, per la sua generazione Internet è stato lo spazio in cui molti hanno avuto l’illusione di trovare un territorio a cui appartenere. «Lì potevi diventare te stesso, o quello che pensavi di essere, o quello che volevi essere». Internet diventa, quindi, il posto perfetto in cui qualsiasi estetica può essere costruita: anche quella della sad girl. Dietro questo orizzonte culturale si nascondono i ritratti femminili che Sofia Coppola ha trasposto nelle sue pellicole: le sorelle Lisbon di Jeffrey Eugenides nel sobborgo americano, e la Maria Antonietta di Antonia Fraser giovanissima e isolata alla reggia di Versailles. Anche le parole di Sylvia Plath («Sono molto stanca, banale, confusa. Non so chi sono stanotte») in cui milioni di ragazze si sono potute riconoscere. In modo simile, i testi delle canzoni di PJ Harvey, Cat Power, Joni Mitchell e Lana Del Rey, producono quel senso di condivisione. Ma cosa rende vicini i moodboard di Pinterest e i wallpaper di Tumblr con i repost di riferimenti culturali che seguono l’estetica della sad girl? Ad accomunarli è la trasformazione della tristezza in uno stato creativo.
Infatti, se la tristezza, e tutte le diagnosi cliniche in cui può essere declinata (dalla depressione all’angoscia, fino alla malinconia), è sempre stata storicamente femminilizzata, la ‘ragazza triste’ normalizza e legittima la tristezza, trasformandola in un tratto distintivo che le permette di distinguersi. La tristezza diventa, così, uno stato di fertilità creativa. Tuttavia, come le altre estetiche neonate nei primi anni di Tumblr, anche l’estetica della ‘ragazza triste’ ha rischiato di essere schiacciata dallo stereotipo: se il vedersi rappresentate crea un senso di comunità e di persone che usano il tuo stesso codice, allo stesso tempo rischia di semplificare e banalizzare le proprie caratteristiche personali: «Me le ritrovavo tutte in fila, pronte a esprimere al posto mio quello che provavo o, altrimenti, a fungere da modello per la mia malinconia […] erano state la mia educazione sentimentale». Non è un caso, poi, che l’estetica della sad girl sia sorta nell’epoca della prima persona, in cui il culto per la sofferenza e l’uso dell’empatia come mezzo abbiano fatto del racconto della tristezza una vera e propria industria multimilionaria. È impossibile non aver incontrato ‘scrollando’ nel grande calderone di TikTok una ragazza che piange da sola sotto le coperte, o che con il trucco sciolto ti parla e ti dice che lei lo ha già provato e passerà anche a te. Anche su questo Sara Marzullo non ha dubbi e con una giusta dose di cinismo e distacco è lei stessa a formulare il più grande paradosso contemporaneo: «Tutto questo dolore ci sarà utile, a patto che lo capitalizziamo». I concetti di ‘ragazza’ ed essere giovane diventano così una teoria da imparare e replicare. Rischiando di creare bambole di cartapesta.
Female gaze
Tra momenti di riflessione saggistica alternati ad altri, più intimi, vicini al mémoire, Sara Marzullo parla di come sia, e sia stato, essere ragazze in questo preciso momento storico. Partendo dalla sua personale esperienza descrive il trapasso da teenager alla decade successiva, l’età della twenty-something-girl, e rimarca innanzitutto un elemento presente e imprescindibile per la costruzione della propria rappresentazione: l’essere soggette a uno sguardo. Il problema è che spesso e volentieri si tratta dello sguardo maschile. Se n’è sentito parlare tanto ultimamente di male gaze. Come si fa per svincolarsi? Ritorna il pensiero di Simone de Beauvoir, per cui nella società umana la donna, come molto altro, è un prodotto elaborato dalla civiltà. La donna non nasce donna, ma diventa donna in quanto si adegua all’ideale che gli uomini hanno di lei.
È nella metafora della ‘ragazza perduta’, altra componente dell’estetica girl, che Sara Marzullo racchiude un altro grande stereotipo contemporaneo: riguarda gli uomini che non si sentono ricambiati e preferiscono immaginare che la ragazza di cui si sono infatuati se ne sia andata perché «diabolica, manipolatrice […], una pazza». Non semplicemente perché non più interessata a loro. Preferiscono scegliere di essere un «Pigmalione abbandonato dalla propria creatura» e lamentarsi della sua scomparsa, piuttosto di accettare che l’idea, che si erano fatti di quella ragazza, abbia dovuto fare i conti con la realtà. Anche loro sono vittima di una sorta di ‘Laura Palmer syndrome’: come per gli abitanti di Twin Peaks la scomparsa di Laura Palmer rappresenta un momento fondamentale, di evoluzione e superamento di certe strutture sociali, così per gli uomini, la ‘ragazza perduta’ è un ammonimento essenziale, che consente il passaggio all’età adulta. Ifigenia e Agamennone, Persefone e Ade: anche nel mito antico si riflettono queste costanti sociali. È sempre una giovane donna a dover fare da tramite, perché emblema di quella parte di lui, quel femminile represso, che va sacrificato per evolversi. «Alla ragazza è richiesto di soffrire, di essere intrinsecamente triste, e di farlo anche al posto dell’uomo» e socialmente quest’idea non fa altro che amplificare il senso di lontananza leggendaria che attornia la ‘ragazza perduta’, che in realtà non è un miraggio, come l’hanno dipinta gli uomini, ma è una ragazza in carne e ossa: il male gaze, questo scambio di sguardi invisibili, non influenza solo l’idea che gli uomini hanno delle ragazze, ma il rapporto che la ragazza ha con la propria giovinezza, percepita come un sogno o una visione. Sono arrivate ovunque. Le ‘ragazze perdute’, create dagli uomini e per gli uomini per corroborare la fantasia personale degli stessi, hanno iniziato a popolare anche i prodotti televisivi, basti pensare tropo della manic pixie dream girl.
Ma quindi come svincolarsi da questo paradosso sociale? Forse solo l’invenzione di un female gaze, in risposta alle rappresentazioni femminili bidimensionali, può essere una soluzione per uscire dalla trappola delle rappresentazioni di personaggi femminili inventati da fantasie maschili e quindi vuoti e distanti dalla realtà: forse questo è l’unico modo per evitare che altre donne cadano in questo labirinto di sguardi e si perdano, ancora e ancora.
«I’m not a girl, not yet a woman»
Dietro al collage di immagini che compongono lo spettro della sad girl c’è innanzitutto una ragazza, negli anni della sua adolescenza. «Non c’è nulla di più mercificato dell’adolescenza femminile». La maggior parte delle pop star sono diventate famose quando erano adolescenti. Ma quand’è che sono cresciute? Mai. La ‘ragazza’, come la pop star, sembra perennemente bloccata in una sorta di eterna giovinezza, e anche la maturità si trasforma in una «seconda girlhood». Se da un lato hanno saputo sfruttare il proprio capitale sessuale, dall’altro le pop star degli anni 2000 sono rimaste schiave dei ritmi di vendita. «Nel suo video di debutto Baby One More Time Britney sembra interpretare un’adolescente, invece di essere un’adolescente».
La fobia dell’aging e una ‘gerofobia’ dilagante hanno trasformato l’industria musicale in una gara a chi sa rinnovarsi di più. Come Taylor Swift, che in oltre quindici anni di carriera si è dovuta reinventare una decina di volte, ogni volta un’estensione adolescenziale della precedente, un protendere all’infinito verso lo stesso ideale, cambiando stile, registrando un nuovo disco ma ritrovandosi poi al punto di partenza: il mito di Sisifo declinato in versione pop star, l’eterna ragazzina che dopo aver percorso con il masso la salita si troverà a percorrerla di nuovo. Ma perché? La pop star, come l’adolescente è ‘caught in the middle’, bloccata tra una fase e l’altra della sua esistenza, quindi sempre nel suo potenziale sviluppo. Inconsciamente anche l’immagine della ‘ragazza triste’ rappresenta un individuo bloccato in un momento specifico della sua vita: il momento di elaborazione dell’inadeguatezza e del dolore. Le canzoni pop, fa notare Sara Marzullo, (come del resto anche la letteratura e il cinema) vengono utilizzate per elaborare sentimenti complessi: ai testi delle canzoni pop la sad girl affida il compito di dirottare le proprie malinconie per non affrontarle direttamente, ma farlo fare a qualcun altro. Ed è un po’ questo, alla fine, il motivo per cui l’estetica della ‘ragazza triste’ esiste: «come se essere tristi fosse un modo per non partecipare attivamente alla società», che è parte del sentire comune in questi anni.
Nel mondo femminilizzato, che fa credere (solo credere) alle donne di essere libere, le estetiche che hanno popolato la rete hanno contribuito a dimostrare che dietro l’elogio della femminilità si cela un’illusione: come un refresh compulsivo che elimina le immagini precedenti e aggiorna la pagina di Instagram, Pinterest o TikTok, così le estetiche nate tra anni ’10 e ’20 sono ben presto destinate a dissolversi, in un click.