Skip to main content

Violenza, trauma e disagio psichico nella musica di Pete Townshend e nel teatro di Sarah Kane

Tra l’esperienza creativa di Pete Townshend con la sua band The Who e il breve ma intenso exploit drammaturgico di Sarah Kane intercorrono quasi trent’anni e un’intera generazione di cambiamenti sociali, economici e culturali. A parte la provenienza londinese (lui di Chiswick, zona ovest della città, lei di Brentwood, comune orientale della grande area metropolitana di Londra), non mostrano evidenti tratti in comune. Anche la critica non sembra aver mai posto la produzione dei due autori a confronto, eppure una serie di suggestioni nella lettura di pièce di Kane, come Dannati e Psicosi delle 4.48, mi hanno portato immediatamente alla mente stralci e immagini provenienti dalla produzione musicale di Townshend & co., in particolar modo dai due concept album della band, Tommy (1969) e Quadrophenia (1973). Assecondando queste suggestioni, ho abbozzato un confronto tra questi due artisti e le loro opere più rappresentative con l’intento di far emergere una corrispondenza d’amorosi sensi – e di traumatiche esperienze – tra Townshend e Kane.

Tommy e Dannati

In un’intervista del 14 settembre 1968, Pete Townshend, chitarrista e membro fondatore della rock band britannica The Who, dichiara a Jann Wenner di Rolling Stone di avere in mente «un’opera rock che abbia per protagonista un giocatore di flipper sordo, muto e cieco, […] ma è solo un’idea che ho in testa, niente di definito». In otto mesi, quell’idea prenderà la forma di un doppio album, Tommy: «la più grande rock opera di tutti i tempi». I brani raccontano la storia del piccolo Tommy Walker, bambino atteso con gioia dai genitori, ma che ben presto conoscerà i lati più oscuri dell’esperienza umana: suo padre, disperso durante la Prima guerra mondiale e creduto morto, torna inaspettatamente a casa cogliendo in flagrante adulterio la moglie, per poi essere ucciso dall’amante di lei, proprio davanti agli occhi del bambino che assiste alla scena attraverso il riflesso su uno specchio. Il trauma è così devastante da paralizzare Tommy, rendendolo cieco, muto e sordo. Da qui seguiamo il travagliato percorso di crescita di Tommy, costellato di difficoltà e abusi perpetrati da personaggi subdoli e grotteschi come il cugino Kevin, bullo sadico e violento, e lo zio Ernie, viscido molestatore. I tentativi di sbloccare lo stato catatonico del ragazzo, che riesce a captare la realtà circostante solo attraverso le vibrazioni che sente attraverso il tatto, si susseguono in maniera fallimentare, dalle preghiere di un fantomatico santone al ricorso alla droga per mano di una prostituta tossicodipendente. Grazie a un tavolo da flipper trovato per caso, Tommy scoprirà di avere un talento innato per il gioco, diventandone campione acclamato. Dopo l’ennesimo dottore senza un rimedio concreto, la madre del protagonista, in uno scatto d’ira, rompe lo specchio in cui Tommy è solito fissare vacuamente lo sguardo, e con esso rompe anche l’isolamento sensoriale del ragazzo che, come svegliatosi improvvisamente da un letargo, ricomincia a vedere, sentire e parlare. Sull’onda di questo evento miracoloso, Tommy diventa una sorta di messia, attirando a sé orde di seguaci a cui viene chiesto di liberarsi di ogni avere superfluo e provare la sua stessa condizione di isolamento dal mondo per poter sviluppare la propria dimensione interiore. Ritenendo i sacrifici richiesti da Tommy troppo grandi, i suoi proseliti iniziano a rinnegarlo e ad abbandonarlo, ponendo il giovane davanti alla consapevolezza della volubilità e dell’attaccamento materiale dell’uomo, mentre lui è ormai votato alla trascendenza spirituale. 

Spogliato dalla componente messianica di derivazione orientale (dal 1967 Townshend è diventato un seguace degli insegnamenti di Meher Baba, un maestro spirituale indiano, indicato tra i crediti dell’album come Avatar, ovvero una sorta di divinità in forma umana, quasi come nume ispiratore dell’opera) Tommy è un personaggio costruito dal suo autore per mettere in musica – e poi in scena nelle varie performance dal vivo – le violenze e gli abusi di cui egli stesso era stato vittima da bambino. Nella sua autobiografia Townshend racconta infatti di un’infanzia travagliata tra le macerie del secondo dopoguerra, con dei genitori dalla presenza altalenante e una nonna violenta e poco lucida, che avrebbe aperto la porta di casa a un suo ‘amico’, colpevole di aver poi abusato del piccolo Pete a soli sei anni. Molti critici hanno infatti definito Tommy «una sorta di seduta di psicanalisi fatta su spartito» . 

Un primo tentativo di rielaborazione artistica del trauma è rintracciabile già in un pezzo precedente degli Who, A Quick One While He’s Away, inserito nell’album A Quick One del 1966. Il brano, lungo nove minuti e composto da sei movimenti diversi, definito una «mini opera» dall’autore stesso, rappresenta il germe sia tematico che formale di quello che sarà poi Tommy. A Quick One racconta infatti, in maniera indiretta e attraverso le voci dei vari personaggi, la storia di una ragazzina – per l’autore una sorta di « una gemella che aveva sofferto le stesse privazioni che avevo sofferto io »che subisce una violenza da un uomo adulto, Ivor the Engine Driver, « metafora per il possibile violentatore ». Per Townshend, « (A Quick One While He’s Away) è la mia storia riscritta come una favola». L’autobiografismo cederà poi il passo alla finzione con i suoi flipper impazziti, ma il nucleo materico da cui Tommy è scaturito è essenzialmente racchiuso nel trauma di Townshend che sublima quelle esperienze negative racchiudendole in un personaggio mutilato, chiuso in sé stesso e al mondo, proiezione non solo di sé, ma dell’essere umano in generale che ha bisogno di sentirsi visto, percepito, toccato e guarito: «See me, feel me, touch me, heal me».

La privazione sensoriale come condizione legata a una dimensione di violenza psico-fisica, contesti familiari disfunzionali, relazioni tossiche e un disperato, sotteso anelito di speranza verso una luce di salvezza sono i temi che si ritrovano anche nella poetica di Sarah Kane. Lo vediamo subito in Dannati, il suo primo testo teatrale – scritto nel 1992 e portato in scena nel 1995 – che debuttò a Londra provocando reazioni molto contrastanti tra pubblico e critica per la sua crudezza e oscenità. La pièce, bipartita e composta da cinque scene, è ambientata in una lussuosa e anonima camera d’albergo di Leeds, dove un’insolita coppia si dà appuntamento: Ian, un cinico, razzista, sessista e volgare quarantacinquenne giornalista di tabloid, alcolista, tabagista e con un cancro ai polmoni, e Cate, una ventunenne ingenua, affetta da una forma di epilessia e da un qualche disturbo psichico che la porta a balbettare nei momenti di tensione. La relazione tra i due personaggi, che sin dall’inizio non appare del tutto limpida, lascia intuire una storia passata che però non si è chiusa del tutto, soprattutto secondo Ian, che tenta più volte di fare leva sulla buona fede di Cate per convincerla a concedersi sessualmente. I rapporti di potere pendono chiaramente a favore dell’uomo, che usa il linguaggio come un’arma contro Cate, fino a concretizzare questa violenza verbale con uno stupro. 

La scena dello stupro, prima mentale e poi fisico, costituisce infatti la chiave di volta del dramma e verrà reiterata nella seconda parte, questa volta ai danni di Ian, che passerà da carnefice a vittima di un terzo personaggio che irrompe sulla scena: un soldato, proveniente da un non specificato conflitto, sconvolge gli equilibri della vicenda portando letteralmente la guerra all’interno della dimensione ‘domestica’ della camera d’albergo, che viene fatta saltare in aria a causa di un’esplosione che squassa la scena, nonché la struttura stessa della pièce. è la realtà della guerra che rompe i confini della normalità per innescare una catena di violenze senza fine, che vanno a legarsi a quelle già consumate dietro le porte chiuse della quotidianità: ecco quello che la seconda parte di Dannati mette in scena, andando a legare l’idea primigenia della Kane, cioè raccontare il dramma di un rapporto tossico e disfunzionale chiuso tra quattro pareti, con l’esigenza – scaturita in itinere – di portare davanti agli occhi del pubblico teatrale quello che stava avvenendo nelle zone di conflitto dell’ex-Jugoslavia, dove gli stupri di massa erano stati denunciati anche sui canali mediatici più popolari come vero e proprio strumento di sottomissione e pulizia etnica, ma sembravano scandalizzare ben poco l’opinione pubblica. Al crescendo di sopraffazioni che, «in un ritmo circolare di efferatezze» vengono ora inflitte dal soldato a Ian, si aggiunge il racconto delle violenze di guerra che, con sadica dovizia di particolari, il soldato riversa sul giornalista, mettendo in evidenza con nauseabonda esattezza quanto devastante sia la realtà bellica, così distante dalla pruderiescandalistica delle notizie che invece attizzano il grande pubblico, anestetizzato e indifferente davanti al filtro dei media. 

Anche Ian si mostra tale e rifiuta in toto il racconto del soldato che, quasi a volerlo punire in una sorta di atroce contrappasso infernale, acceca Ian, mangiandogli gli occhi, per poi suicidarsi. La Kane stessa, in uno degli sporadici commenti alle sue opere, afferma di aver scelto l’accecamento come metafora di un’evirazione, una totale perdita di potere di Ian: 

«È ovvio che se sei un reporter gli occhi sono decisamente il tuo organo principale. Allora mi sono detta che invece di farlo castrare, un’azione che temevo risultasse troppo melodrammatica, avrei puntato su un tipo di castrazione più metaforica.»

Cieco, violentato, svuotato di ogni percezione, Ian si ritrova nella stessa situazione in cui ci viene mostrato Tommy, il protagonista della rock-opera di Townshend: «touch me», è la richiesta di contatto che entrambi ripetono più volte a chi li circonda per uscire dalla condizione di isolamento sensoriale – una reale e truculenta, l’altra per uno stato di chiusura al mondo di natura traumatica – di cui si ritrovano vittime. 

Come Pete Townshend, anche Sarah Kane non è estranea alla rielaborazione di elementi traumatici autobiografici nelle sue opere; anche lei, come il cantautore, ha raccontato di essere stata vittima di abusi da bambina, la prima volta a otto anni. Il rapporto biunivoco tra violenza nella dimensione pubblica e sfera privata regge tutta la struttura drammaturgica di Dannati e ritorna in tutte le pièce dell’autrice, lasciando però anche spazio a una dimensione più luminosa, legata alla cura e a un barlume di speranza racchiuso in gesti elementari come quelli che compie Cate nei confronti di Ian – nutrirlo, evitare che si tolga la vita, dargli conforto con la sua presenza – e al granello di bontà ancora presente nell’essere umano come quel «Grazie» pronunciato da Ian prima del buio finale. 

The_Who_Hamburg_1972
The Who, Ernst-Merck-Halle Hamburg, August 1972: Roger Daltrey, Pete Townshend, Keith Moon. Heinrich Klaffs

Quadrophenia e Psicosi delle 4 e 48

La sensazione di familiarità con quest’altra coppia di opere è stata invece più diretta, provocata da un tratto formale che le accomuna: delle cifre che indicano due orari, 5.15 e 4.48. Due orari diversi, ma che rappresentano entrambi un momento dal forte valore simbolico per i protagonisti di Qudrophenia e Psicosi delle 4 e 48

Il primo – 5.15 – è il titolo di una traccia tratta da Quadrophenia (1973), seconda rock-opera dei The Who, questa volta interamente scritta da Pete Townshend, e corrisponde all’orario di partenza di un treno da Londra diretto a Brighton su cui viaggia Jimmy, protagonista della vicenda narrata in questo concept album, giovane mod in preda ai tumulti della mente provocati dall’assunzione massiccia di droghe, immerso in un flusso di coscienza frammentato in cui ripercorre le sue esperienze in un turbinio di sentimenti contrastanti, per lo più negativi, fino alla completa perdita di sé.  

Il secondo orario allude a quello che secondo le statistiche è il momento di maggiore attrazione verso il suicidio e, non a caso, dà il nome all’ultima pièce teatrale scritta da Sarah Kane, prima che si togliesse la vita nel 1999, rendendo Psicosi delle 4.48 una sorta di testamento spirituale della giovane autrice, portato poi in scena postumo l’anno dopo. 

Il fil rouge che lega queste due opere appartenenti a generi così diversi è certamente il disagio psichico, le inquietudini mentali che sfociano in patologie e atti di autolesionismo fino a giungere alle estreme conseguenze.  

Partiamo in ordine cronologico, quindi dall’album del ’73, Quadrophenia: neologismo coniato da Townshend fondendo il termine «quadrophonia», sistema stereofonico di registrazione e riproduzione del suono che usa quattro canali diversi contemporaneamente, e «schizophrenia», psicosi cronica che porta all’alterazione delle funzioni cognitive, percettive e comportamentali, di cui Jimmy, il protagonista dell’album, è affetto. Anche nella costruzione di questo personaggio, Townshend parte dal proprio vissuto personale, pescando a piene mani dal recente passato della band, inglobando una serie di caratteristiche riprese da persone a lui vicine – partendo da alcuni fan fedelissimi della prima ora – decide di scindere la sua personalità in quattro parti, creando per ognuna un tema musicale differente ispirato al carattere dei quattro membri della band, per dare anche all’orecchio dell’ascoltatore la sensazione di frattura e disunione che tormenta la mente di Jimmy. 

La storia del concept album segue appunto le vicende di questo ragazzo, Jimmy Cooper, giovane mod della classe operaia londinese, narrate da lui stesso in un lungo flashback. Come anticipato, ha disturbi caratteriali con repentini sbalzi d’umore – complice anche l’uso di anfetamine – per cui vede uno psichiatra una volta alla settimana ma apparentemente senza trarne giovamento. Coi genitori ha un rapporto conflittuale, ha difficoltà a relazionarsi con i coetanei e con l’altro sesso; deluso e amareggiato dalla perdita di punti di riferimento, di modelli da seguire, si rifugia nella droga e contempla addirittura il suicidio. Arrivato a Brighton dopo un allucinato viaggio sul treno delle 5.15, luogo in cui ricorda i leggendari scontri tra mods e rockers  in cui lui stesso aveva trovato un briciolo di senso, trova la città semideserta e scopre che anche il leader più ‘duro’ e più invidiato della sua ex banda ora si fa sfruttare lavorando come facchino in un albergo. Nella sua paranoia amplificata dalle sostanze, Jimmy si sente tradito da tutto e tutti e ha un crollo emotivo. Ruba allora una barca a motore e, sempre alterato da anfetamine e alcol, raggiunge uno scoglio dove, sotto una pioggia torrenziale, ripercorre tutta la sua vita e finisce per avere una sorta di rivelazione pseudo-mistica. La barca nel frattempo è andata alla deriva da sola, lasciando Jimmy isolato su quella roccia in mezzo al mare. La narrazione si conclude così, col rumore del mare e la sorte di Jimmy lasciata in sospeso. 

Townshend mette al centro di questa seconda narrazione musicale un personaggio che non è affatto il classico protagonista eroico, o quanto meno positivo che, pur partendo da una situazione di svantaggio, arriva poi, dopo una serie di ostacoli, a crescere e trionfare: Jimmy è un disadattato, un reietto, disturbato e dipendente, «a loser, no chance to win», come dice lui stesso nel brano I’m One – che è una sorta di dichiarazione programmatica dell’autore; la sua non è una parabola ascendente come quella del suo predecessore Tommy, ma non è nemmeno una totale dissoluzione di sé perché non sappiamo davvero che fine faccia Jimmy dopo la sua esperienza pseudo-mistica. Però ancora una volta il chitarrista degli Who decide di utilizzare la sua musica per affrontare tematiche ostiche come il disagio psichico di un giovane alla ricerca di sé e di come, in questa ricerca, rischi di perdersi, di disunirsi. 

«Can you see the real me? Can you?» urla disperato il cantante Roger Daltrey che nel brano The Real Me dà la voce a Jimmy, prima rivolto al suo strizzacervelli, poi a sua madre, infine a un prete: tutte figure di riferimento che dovrebbero aiutarlo, fargli da guida e che invece non fanno che accrescere il suo malessere, dimostrandosi sordi al suo dolore, portandolo così all’esasperazione tale da cercare un anestetico nella droga, nell’alcol, fino a contemplare il suicidio. 

Anche in Psicosi delle 4.48, al centro di questo lungo monologo interiore troviamo una voce disperata, cioè quella dell’autrice stessa, che in una veglia tormentata dai suoi demoni interiori, valuta il suicidio come unica, seppure dolorosa, opzione. 4.48 è infatti un’ora attesa, ma allo stesso tempo temuta dalla Kane, che la definisce in diversi modi nel corso della pièce: è l’ora in cui arriverà la disperazione, dove non potrà più parlare, ma è anche l’ora felice della lucidità, dove potrà dormire e guarire. Quello che sarà poi davvero l’ultimo gesto di Sarah Kane non sarà dettato da una netta volontà di autodistruzione, – «non ho nessuna voglia di morire / nessun suicida ne ha mai avuta» –  ma da una oramai incapacità di scendere a compromessi con l’indifferenza del mondo davanti al male, e di «dirsi grandi bugie» per andare avanti, che era per lei «la cronica insanità del sano». L’accusa di ipocrisia e falsità si fa perentoria soprattutto nei confronti di quelle figure che avrebbero dovuto aiutarla di più –  proprio come fa Jimmy in The Real Me – scagliandosi violentemente contro medici e figure genitoriali: 

Eppure, nonostante i rifiuti delle cure, i tentativi di autolesionismo, la fuga nell’oblio, quello che resta intatto e che spicca come una scia luminosa tra le righe più drammatiche di questo flusso di coscienza è il desiderio, il bisogno di essere ascoltata, di sentirsi guardata, capita, non giudicata e quindi amata, che la voce recitante ribadisce in maniera struggente fino all’ultimo, quando chiede di aprire le tende come a voler rincorrere ancora una volta quella luce. 

Come«una sinfonia per uno strumento solo» la cascata di parole poetiche che sgorgano dalle profondità creative di quella «coscienza antica» che abitava Sarah Kane ci restituiscono una sintesi lirica della sua disperata ricerca esistenziale in un progressivo allontanamento dal mondo che passa attraverso frammenti di dialoghi, lunghi elenchi di verbi e aggettivi, liste di psicofarmaci e diagnosi mediche, strofe di versi di altissimo lirismo, un salmodiare laico che raggiunge vette di una religiosità profondamente profana, ma estremamente spirituale.

In questo patchwork testuale caratteristico della penna di Sarah Kane, «ultima di una serie di cleptomani letterari», i riferimenti ad altri testi sono innumerevoli – da Shakespeare alla Bibbia, fino a T.S Eliot e Beckett – e abbastanza manifesti, perché «il furto è un atto sacrosanto / sul cammino tortuoso che porta all’espressione», però non c’è traccia evidente che la drammaturga di Brentwood abbia avuto dei contatti con le opere musicali di Pete Townshend. Che la Kane fosse interessata anche alla musica è un fatto confermato da lei stessa e da chi l’ha conosciuta e studiata; musica che ritroviamo anche in alcune delle sue pièce come in Cleansed il brano Things We Said Today di Lennon-McCartney. Nessuna citazione esplicita invece degli Who, ma ciò non cancella le somiglianze rintracciate in questo “dialogo impossibile” tra un chitarrista e cantautore che diceva di voler morire prima di diventare vecchio, ma è ancora tra noi a 79 anni suonati, e una giovane drammaturga morta suicida a soli 28 anni per quel «bisogno vitale di essere amata». ♦︎

Leave a Reply