Nella tarda serata del 28 settembre, in occasione dell’Underground Cinefest, c’è stata una proiezione che ha coinvolto sì e no una manciata di persone. Saremmo stati 6 o 7 ad occupare il cine-teatro Baretti, sala dall’animo sfacciatamente punk, avvolto da un’aurea malaticcia da vecchio cinema di quartiere anni ‘70. Alcuni dei pochi spettatori si sono addormentati durante la visione, conferendo all’evento una certa intimità e donando al bianco e nero delle immagini un’atmosfera sognante. Il ronfare placido e sommesso proveniente dagli angoli della sala sembrava fare parte della colonna sonora del film. Davanti a me una coppietta ogni tanto pomiciava, talvolta sonnecchiava, a volte guardava il film. Sembrava una scena uscita da “Il Brady” di Jacques Thorens.
Sarà che la durata di tre ore, abbinata alle parole Art-House e Sperimentale avrà fatto da deterrente per un festival altrimenti molto partecipato dal pubblico. In più il fatto che il film provenga dal sud-africa, cinema con cui si ha poca familiarità, avrà scoraggiato anche i più curiosi. Forse quando un occidentale pensa all’intrattenimento africano l’unica cosa che gli viene in mente è B14? Fatto sta che il film è stato una vera sorpresa, nel senso più positivo del termine.
La recensione del film
Un artista di paese alcolizzato ingaggia una battaglia silenziosa con gli abitanti del suo villaggio, coi quali si rifiuta di condividere le sue creazioni. Siamo di fronte ad un outsider, solo contro tutti, che sembra uscito da un film di Herzog o Bela Tarr. Il bianco e nero e la lunghezza insistita delle inquadrature, con il debole per l’alcool del protagonista riverberano del cinema del regista ungherese. Mentre la tenacia con cui persegue i suoi obbiettivi folli, ricorda i personaggi allucinati di Kinski nei film del cineasta tedesco.
“Forse c’è qualcosa di peggio dei sogni svaniti: perdere la voglia di sognare ancora”. In questa citazione dal libro di Freud che dà il titolo al film, è racchiusa la chimera in cui il protagonista tenta di rifugiarsi. È la storia d’un uomo che sogna così tanto da alienarsi completamente dalla realtà, impossibilitato a vedere la povertà e lo squallore che lo circondano. Emblematica la scena in cui l’artista in preda ai miasmi dell’alcolismo sembra librarsi in volo. Il viso contratto in una smorfia fluttua nel lato destro dello schermo ricordando il volto di Jack Nance in una delle inquadrature iniziali di Eraserhead.
L’ America chimerica
Il film si svolge in questa cittadina costruita in mezzo al deserto, con case fatiscenti in legno marcito. Si respira un’esalazione di qualcosa in putrefazione, odore di vecchio western ammuffito. Un’ambientazione in cui poteva svolgersi una pellicola di Howard Hawks o John Ford, ma contaminata dalla cattiveria e dall’ossessione per la fame di Glauber Rocha. Scenografia in cui c’è un’evidente fissazione per le facciate degli edifici che richiama le fotografie di Walker Evans. Un’attenzione verso quadretti disagianti che sembra uscire fuori da una raccolta di scatti di Diane Arbus.
C’è una sinistra predilezione verso l’America più rancida. Ogni tanto lo schermo televisivo occupa l’inquadratura facendo intravedere programmi spazzatura o vecchi cartoni animati razzisti. Tutto ciò dà vita ad un quadro grottesco e surreale, dipinto in un bianco e nero dai contrasti violenti che scava la magrezza del protagonista.