Presentato a Cannes e Locarno nel 2021, l’ultimo film del regista franco-argentino è un dramma geriatrico a tinte horror che s’immerge nei recessi della demenza.

Una coppia di anziani abita un angusto e asfissiante appartamento parigino pieno di libri e ricordi. Lui (Dario Argento) è un critico cinematografico intento a scrivere un saggio sul rapporto tra i sogni e la Settima Arte. Lei (Francoise Lebrun) è un medico in pensione che esce spesso per fare le commissioni e assecondare il marito nelle sue esigenze di scrittore sedentario. La tranquillità della loro vecchiaia viene brutalmente interrotta quando la donna comincia a manifestare i primi sintomi di Alzheimer.

Francoise Lebrun e Dario Argento in una scena. Ecco il trailer!

UN MURO: LO SCHERMO

Allo scoprirsi della malattia l’inquadratura si spacca in due. I personaggi sono nel letto l’uno accanto all’altra ma divisi dalla presenza di una barriera invalicabile. Inizia così un opprimente operazione di sfiancamento visivo nei confronti dello spettatore. A stordire è l’impallamento causato dall’avere due quadri in contemporanea nel rettangolo dello schermo: cornici dense di oggetti e corpi dalla composizione scardinata e decentrata. Noé aveva già sperimentato l’utilizzo dello split-screen nel precedente Lux Aeterna, portando il pubblico allo stremo con le sue sequenze epilettiche. Al contrario qui il senso di iugulazione è dato dalla stagnanza delle situazioni ultra-dilatate, su cui la macchina da presa indugia come sondando una palude. L’occhio si stanca e le pupille si irritano per il continuo ricorso a brevi stacchi neri che sottolineano ogni cambio di inquadratura. Una soluzione di montaggio che rimanda ad un vuoto, a un momento di nulla.

Una vacuità iper-satura e chiassosa che rende la visione faticosissima e a tratti intollerabile. La pesantezza del film soverchia lo spettatore impedendogli di scostare lo sguardo dallo schermo, sublimando al contempo il potere ipnotico delle immagini di Noé. C’è una scena in cui Kiki, il nipotino dei due anziani, si diverte a sbattere le sue macchinine sul tavolo producendo un rumore assordante. Il chiasso provocato dal bambino rende impossibile il dialogo tra la coppia di pensionati e loro figlio Stephane (Alex Lutz). Questo elemento disturbante rimanda all’entropia, rappresentata dallo split-screen, che man mano porterà i protagonisti ad una situazione di totale incomunicabilità. Nei film del regista (Climax su tutti) l’impossibilità di esprimersi e di attenersi a quei protocolli sociali per comprendersi coincide con la morte.  La comunicazione può essere impedita da rabbia (Irreversible) e droghe (Enter The Void), che cementificano un muro di vuoto per i personaggi impossibile da abbattere.

UN SEPOLCRO: IL CINEMA

“… a me viene da dire che trovare prima, imbalsamare e mostrare dopo è attività necrotica, da tassidermista…”

Queste parole snocciolate dall’attore Claudio Morganti in un’intervista sull’improvvisazione teatrale si possono associare al modus operandi specifico della produzione cinematografica. Dove il “trovare prima” corrisponde alla fase di sceneggiatura, mentre “l’imbalsamare” all’operazione di fissaggio dell’immagine che avviene durante riprese e montaggio. Con Vortex Noé si pone come l’imbalsamatore per eccellenza trasformando la sala cinematografica in un vero e proprio monumento funebre.

In una scena emblematica Dario Argento fissa nello schermo del televisore una sequenza di Vampyr. Nel frammento mostrato il protagonista del film di Dreyer sogna di essere in una bara con un’apertura in corrispondenza del viso. Alcuni uomini scortano il feretro fino al luogo della sepoltura e lo sguardo vitreo del cadavere passa in rassegna architetture e persone visibili dallo spiraglio. Le soggettive mostrano ciò che il morto vede oltre la feritoia con una soffocante angolazione dal basso verso l’alto.

Vampyr
Vampyr (1932) di C.T. Dreyer. Qui la scena completa

Questa scena in bianco e nero presenta un’idea di cinema che permea tutta l’opera di Gaspar Noé, dove l’oggetto-film diventa qualcosa che si deve subire. Il cineasta vuole rendere lo spettatore inerme e farlo rimanere con gli occhi sbarrati per tutta la durata della visione. Ne esce fuori che lo sguardo del cadavere e quello del pubblico sono schiacciati alla stessa maniera. Le quattro pareti della cassa da morto delimitano il perimetro della sala cinematografica dove la carcassa-spettatore è costretto a fissare la fenditura-schermo. Il regista si fa impresario funebre, il cui compito è scegliere il tragitto per accompagnare la salma al luogo della sepoltura. E nello svilupparsi di questa processione emerge ciò che il réalisateur vuole obbligare a far vedere.

Se sei qualcuno è colpa mia

C’è una macabra ironia in questo: una visione sadica che vede l’atto della mise en scène come la pratica di un aguzzino compiaciuto. L’unico spettatore ammesso è quello disposto a cadaverizzarsi. Ma d’altronde la storia trasuda di ironia. In una delle scene più potenti del film Francoise Lebrun butta i suoi medicinali nel WC intansandolo, mentre il figlio Stephane fuma eroina. Lei è nel riquadro sinistro dello schermo, lui nel destro: le indigenze della demenza vanno a braccetto con la tossicodipendenza. Il brano di Morricone “Se sei qualcuno è colpa mia” fa da contraltare epico ad una sequenza in cui affiorano debolezze e miserie dei personaggi. Noé con questa scelta musicale deride lo sconforto dei protagonisti, facendo venire a galla tutta la cattiveria del suo sguardo. Quest’umorismo brutale trasuda di una sincerità destabilizzante, dove spicca l’innocenza di chi si concede il divertimento di fare sogni orrorifici.

Luca Delpiano
Vedo Film e ogni tanto ne scrivo. A volte faccio cose che si possono guardare. Morirò.

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