Skip to main content

Stazione di Tashkent, 8.30 del mattino

È un giorno così strano, questo. Sono in Uzbekistan per lavoro, pare che a breve salirò su un treno che mi porterà a conoscere un nostro cliente. Destinazione? Samarcanda. Sembra uno scherzo. Oggi scoprirò se questa città leggendaria esiste davvero. 

Al mattino presto, alla stazione di Tashkent, il caldo secco della steppa di luglio mi preannuncia che sarà una giornata di viaggio bollente. Chissà se incontrerò la Samarcanda del mito, se ritroverò le atmosfere languide, colorate e profumate immaginate nelle autosuggestioni orientaliste. I passeggeri che circolano per la hall sgranocchiano semi di girasole, altri prendono posto accatastando bagagli e bisacce, ceste di favoloso pane uzbeko, brick di succhi di melograno, giocattoli, le iconiche barrette di cioccolato moscovite di Alenka. 

Una volta nel treno Afrosiyab, la ‘signorina del tè’ mi sveglia per abbeverarmi e passarmi una merendina al sacco offerta dalla compagnia ferroviaria. D’altronde siamo sulla Via della Seta, il tè è rito, ritmo, contemplazione.

A Samarcanda mi aspetta un autista dal nome impronunciabile, occhietti allungati e simpatici, solita frangetta corvina che va di moda da queste parti. Per cortesia o costume il mio contatto locale ha ritenuto di dovermi far scortare da un driver in quanto «ragazza sola e non uzbeka, nostra ospite». Credo però di potermi muovere autonomamente, e propongo all’autista di rincontrarci nel tardo pomeriggio per una fetta di melone. Aggirarsi per Samarcanda è semplice, si tratta di una pianta urbanistica ortogonale, con parchi cementificati, diffuse caykhane. Sul cammino i venditori ambulanti di pane si alternano ai samovar fumanti e il profumo del doner, una breve sintesi delle anime del Paese: carovaniera, post-russa, turanica, araba, timidamente occhieggiante all’Occidente. 

Nonostante la città si stia ora aprendo al turismo internazionale, Samarcanda e i suoi abitanti sembrano ancora molto tradizionali. Qua e là ci sono statue gigantesche che celebrano in maniera molto asiatica il culto della personalità di Tamerlano e più avanti la gigantesca statua dedicata al Islom Karimov, nato e cresciuto a Samarcanda, ex satrapo reggente della Repubblica URSS, scomparso nel 2016. Ha lasciato una legacy controversa, tra risentimento e nostalgia. Dalla morte di Karimov, il paese è diventato il più popoloso degli stan, uno di quelli a più alta crescita del mondo, ricchissimo di risorse minerarie, energetiche, agroalimentari, finalmente aperto agli investimenti esteri. Per via della posizione strategica, seppur rientri nella categoria delle landlocked countries, è oggetto di contesa tra le grandi potenze in competizione nel rinnovato clima di Grande Gioco: Russia, Turchia, Unione Europea, Stati Uniti, Cina. 

Geopolitica a parte, il vero simbolo della storia di Samarcanda è il maestoso Palazzo del Registan («luogo di sabbia» in lingua farsi), risalente al XV secolo. La piazza antistante è affollata da giovani spose, dette kelin, sono tutte così seriose. Chiedo a qualcuno: «perché?». Mi spiegano gentilmente che è usanza locale che la sposa non sorrida e debba mantenere il capo chino per non lasciare intendere se si tratti di un matrimonio d’amore o combinato. Voglio saperne di più. Scopro che nel 2022 un sondaggio condotto dall’Istituto uzbeko di ricerca sulla famiglia e le donne ha rivelato che il 39,9% delle coppie intervistate si è sposata attraverso il sovchilik, una pratica tradizionale di matchmaking avviata dai genitori e da altri parenti più anziani, mentre il 33,9% si è sposato sulla base di un interesse reciproco. Nel 2019 il Codice della Famiglia ha eradicato, a livello ufficiale, il matrimonio sotto ii 18 anni di età. Tuttavia, le famiglie continuano a organizzare i matrimoni tramite cerimonie religiose informali, i nikah, privi di alcuna registrazione locale. L’apertura del paese alla globalizzazione ha inevitabilmente influenzato il funzionamento di secolari dinamiche famigliari. La popolarità delle dei social media ha reso urgente la sistemazione delle figlie femmine, che tradizionalmente devono sposarsi vergini. Il pericolo che le figlie possano essere esposte al web aumenta le possibilità che si verifichi un indicibile disonore per le famiglie, soprattutto nelle zone rurali. Tuttavia, il dissidio tra modernità e tradizione sembra iniziare a sanarsi. Il 30 aprile 2023 gli uzbeki hanno votato tramite referendum a favore della riforma della Costituzione, che stabilisce uno Stato legale, sociale e secolare, e include un pacchetto di emendamenti del codice penale in cui vengono criminalizzate la violenza domestica e garantite nuove tutele a donne e bambini. L’Uzbekistan si trova al momento al 94esimo posto del Women peace and security index, che valuta 177 Paesi in termini di inclusione, giustizia e sicurezza per le donne. 

L’altro giorno a Tashkent, la capitale del futuro, B mi raccontava del suo matrimonio prima di ospitare il nostro staff in uno dei locali alla moda attorno al Tashkent City Park, un colpo d’occhio avveniristico. Si è sposato per la seconda volta, sembra contento a riguardo. La prima volta si era dovuto indebitare fino al collo per potersi permettere una moglie, aveva acquistato un gioiello molto costoso, nulla in confronto ai beni di lusso in cui devono investire molti suoi coetanei per dimostrare di poter provvedere alla futura sposa. Quest’affare gli ha praticamente rovinato la vita, ora ha una bambina, ed è costretto a saldare le rate del pegno del matrimonio precedente a vita. «Il fatto è che ora la società sta cambiando anche in Uzbekistan», dice. «Sebbene ci si sposi ancora molto presto, sempre più donne iniziano a lavorare, mettendo a repentaglio i meccanismi famigliari di cui ti sto parlando. Tutto ciò che capitava in passato sembra ora scricchiolare. A volte succede che noi ragazzi ci indebitiamo per divorziare poco dopo, soprattutto in città, innescando un angosciante circolo vizioso». Questa è la generazione dei millennial in Uzbekistan, stretta tra tradizionalismo islamico e ateismo postsovietico. Pur affacciandosi alla globalizzazione, gli uzbeki della mia generazione tentano di recuperare la propria identità dopo anni di comunismo. Molti di loro ci tengono a precisare che quei settant’anni di regime hanno fagocitato la cultura locale e dicono di essere stanchi delle interferenze straniere, sebbene l’ansia febbrile di adeguarsi al modello occidentale sia tangibile. E.. quando il cosiddetto ‘mondo libero’ incontra il marcatore culturale, subentra l’angoscia. 

Mentre l’Uzbekistan del 2024 freme cambiamento e si proietta nel futuro, Samarcanda è vera, qui di fronte a me, e i suoi abitanti siedono comodi sul cortile interno del palazzo. Gli uomini vestono dei variopinti cappellini uzbeki a uncinetto, le donne avvolgono i capelli in morbidi tessuti. Nel cortile del Registan gli uni vendono tappeti e stoffe nelle ex aule studio delle madrase, gli altri si accovacciano scalzi su delle grandi panche di legno per riposare; alcune donne siedono a terra con le figlie per esporre delle sciarpe, altri bevono il tè su delle terrazzine, o intagliano sul legno dei simpatici gnomi caratteristici. Ognuno si fa gli affari propri, placidamente, quando incrocio i loro volti sembrano così atarassici, in pace, sembra che sorridano, seppure in realtà non lo facciano, è come se ci fosse una barriera invalicabile tra me e loro nonostante risulti così facile ricevere la loro serenità. Si tratta dell’adorabile enigma dello spirito asiatico. Un ragazzo mi smentisce poi alla moschea di Bibi- Khanym, raccontandomi che anche i grandi leader dell’Asia Centrale abbiano in realtà fatto i conti con i più banali sentimenti umani. Sembra che sia stata la bellissima moglie cinese di Tamerlano ad ordinare la costruzione di questo gioiello architettonico durante l’assenza del marito. Accidentalmente, l’architetto incaricato si innamorò di lei. Tamerlano lo fece presto giustiziare al suo rientro, imponendo a tutte le donne di portare il velo, affinché gli uomini non potessero cadere in tentazione. 

Rifletto su quante similitudini culturali siano sopravvissute fino ad oggi, mentre visito il monumento più impressionante e singolare di Samarcanda, lo Shah-i-Zinda, «la tomba dei re viventi», una necropoli di incredibile fattura artigiana, una meraviglia di piastrelle, terrecotte e maioliche turchesi in cui sembra essere sepolto anche uno dei cugini di Maometto. E’ un luogo indimenticabile, silenzioso, spirituale, in cui è possibile riconnettersi con una dimensione più ascetica, al termine della quale si raggiunge il cimitero di Samarcanda, un parco affascinante in cui incamminarsi e scoprire sulle lapidi i curiosi fotogrammi del secolo scorso, degli uzbeki che furono. Prima di rientrare in città mi addentro nel nucleo vecchio e silenzioso di Samarcanda, un groviglio di strade non mappate, identiche, storte, chiuse, confesso di provare del timore. Mi imbatto per caso nelle sinagoghe sefardite e ashkenazite della città, quando un anziano signore mi invita a visitare il suo cortile, dove sono ammassate una serie di deliziose chincaglierie (bicchieri, piatti, busti di Lenin e altri leader sovietici, tappeti). Poi incontro una dolce signora che sta stendendo i panni, in russo mi chiede da dove vengo, sorridendo adorabilmente quando le dico che sono italiana, senza timore di lasciarmi intravedere la sua dentatura complicata. 

Sono in ritardo all’appuntamento con l’autista del mattino, per quella scorpacciata di melone dolcissimo promessa sulla strada del rientro in stazione.

Prima di salutarmi, vuole mostrarmi il luogo che più inorgoglisce gli abitanti di Samarcanda, la tomba di Tamerlano. Ne vale la pena. Quando varco il portale monumentale mi immergo nel silenzio assoluto ed ossequioso del mausoleo, i cui interni sono impreziositi da profonde nicchie decorate a muqarnas, intonaci e altorilievi rivestiti d’oro. L’oro è prevalente, mai esagerato, mi avvolge con un forte senso di regalità e solenne ieraticità. Chiunque tenti di violarla, potrebbe essere punito: sulla tomba di Tamerlano leggo un’iscrizione: Chiunque violi la mia quiete in questa vita o nell’altra, sarà soggetto a inevitabili punizioni e miseria. Wow, credo che Tamerlano mi abbia stregata.

Mi devo affrettare, farò tardi all’ultimo treno per Tashkent.

Prendere il treno significa concedersi il tempo necessario, guardare i paesaggi che sfilano e le stazioni che si animano, osservare le persone con cui si viaggia e sé stessi, dondolati dalle sospensioni. Di fronte a me c’è una coppia francese, padre e figlio, stanno commentando la giornata straordinaria che hanno vissuto a Samarcanda. Nel resto del vagone solo uzbeki, che hanno pure il brik di te’ da asporto, come se non bastasse quello della “signorina del tè”. La luce del giorno se ne sta andando e non c’è momento migliore di abbandonarsi alla steppa, gialla, ocra, tenue, uniforme, così piatta da suscitare i pensieri più aggrovigliati, quasi quello spazio sconfinato stesse aspettando di essere riempito dai contenuti e dai pensieri di una giovane intrusa capitata in un giorno qualsiasi nell’eterna città di Samarcanda, esistendo, sostando, sparendo, senza formar parte. ♦︎


Testo e fotografie di Claudia Zecchin