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Illustrazione di Andrea Ghiglia

Non riesco a pensare a quando ho smesso di vivere.
Non sono mai stato liberato davvero.
Percorro e ripercorro gli spazi del campo,
mi guardo ancora intorno
immerso in un esanime e violento silenzio:
il mio e quello degli altri.
Vorrei fosse urlo
ma non ha alcuno slancio di fronte al male
che chissà da dove proviene.

Quel tempo mi logora.
Sento ancora freddo e dolore.
Le mie pupille tremano – anche da chiuse.
Corrono in cerca di un’uscita
ma si perdono.
Ormai stanche, cercano un attimo di pace.

Nel mio cuore è scoppiata una granata
improvvisamente
e l’ha disperso in mille pezzi
e sento ancora l’esplosione
che spazza via ogni accenno di quiete.

Sento sempre un denso e asfissiante male
che mi annoda la gola.
Mi opprime il petto pensare al tempo in cui,
libero,
riuscivo a guardare il cielo
e vedevo un velo di seta blu
che sembrava abbracciarmi
e sognavo
e poi speravo.

Poi il velo è stato ferito da un colpo di fucile
fulminato da filo spinato
bruciato in un camino
e si è disperso.

Mi è stato portato via il cielo
e pure l’anima
che ho visto giacere ormai ingrigita e accartocciata
su un prato verde che, sfacciato,
mi esibiva la sua vita
senza condividerla con me.

Ho guardato davanti a me e c’eri tu,
mio fratello,
il mio riflesso.
Eppure, così simile,
non ti sei riconosciuto in me
e mi hai distrutto.

Hai sfigurato ciò che era tra noi
ma se la mia immagine non è più riflessa
non lo è nemmeno la tua.

Se io ora ti tendo la mano,
tu afferrala
perché è l’unico modo di ritrovarci.

Spero che un giorno non avremo più bisogno di trovare le parole giuste per parlare di Auschwitz e di ricordare, perché saremo diventati uomini: finalmente capaci di non distruggerci gli uni gli altri e di amarci, perché è l’unico modo per esistere e vivere. Quel tempo, purtroppo, non è oggi perché, persi come allora, ancora ci ostiniamo a farci la guerra e a credere sia giusto così.