Se andate a pagina 401 di Uvaspina, romanzo che Monica Acito ha pubblicato per Bompiani, trovate i ‘ringraziamenti’; durano quattro pagine e quattro righe. Se non avete ancora letto il romanzo, basta leggere quelli per accorgersi che Monica Acito sa scrivere e sa farlo divinamente. Ma quelle quattro pagine e quattro righe ci consegnano un’altra evidenza, ovvero che Uvaspina è un romanzo sulla ‘luce’; che è un romanzo sulla guerra, la più vecchia del mondo, tra chi quella luce vuole farla brillare e chi quella luce vuole oscurarla, seppellirla, comunque spegnerla. Quelle quattro pagine e quattro righe cominciano così: «Ma perché sono nata con questa cosa della scrittura? Non potevo essere una bambina normale? Te lo dicevo sempre, mamma. […] Ho passato l’infanzia a nascondermi, ho trovato il coraggio di dire ad alta voce “Io scrivo” solo alle superiori. Questo ringraziamento è per te mamma, perché […] mi hai aiutata a non avere più paura della mia luce, a non reprimerla per far sentire meglio gli altri».
Questo incipit (a me che ho la fortuna di conoscere personalmente Monica e sono dunque nella condizione di chi può interpretare un autore anchegrazie alla sua persona, alle sue azioni, al suo presente di carne oltre che di carta) mi ha fatto ripensare a un libro che nella mia vita ha giocato un ruolo decisivo, Alce nero parla (Adelphi) di John G. Neihardt. Alce nero parla racconta la vita di uno degli sciamani più importanti della storia Oglala; la prima parte del libro è dedicata agli anni in cui Alce nero transitava dall’infanzia all’adolescenza, gli anni in cui iniziò a manifestare i primi sintomi del suo potere sciamanico (accenni di visioni, lunghi periodi di malattie), anni in cui Alce nero viveva come una maledizione quello che poi avrebbe capito essere un potere; da ragazzino per lui si trattava di una condanna che lo faceva sentire diverso dai coetanei, a causa della quale veniva, spesso, isolato dai suoi pari. Nella parole di Monica, nell’incipit dei suoi ‘ringraziamenti’, è evidente che la scrittura fosse vissuta da lei come una maledizione, qualcosa che non aveva scelto, e che la portava a vivere un forte disagio sociale.
Essere uno scrittore (uno vero, non un poser) significa, anche, fare i conti con la solitudine che ti porti dentro e con l’isolamento a cui ti condannano gli altri (per gelosia o per paura poco importa). Un dato autobiografico, certo, ma allo stesso tempo una chiave di lettura pregnante rispetto al romanzo, il cui protagonista che dà il titolo al libro, Uvaspina, è un ragazzino che non si sente a proprio agio nel corpo maschile in cui è nato, che è attratto dai ragazzi del suo stesso sesso, che è talmente bello da apparire, agli occhi di tutti, più affascinante della sorella, Minuccia. E Minuccia non gli perdona tutto questo: non gli perdona di essere più bello di lei, non gli perdona di essere un ‘diverso’, non gli perdona la sua luce. E per tutto il romanzo Uvaspina non fa altro che tentare di sopravvivere da ‘diverso’in un mondo di ‘normali’,la cui guardiana per eccellenza è proprio la sorella; Minuccia non vede la propria luce e vuole dunque spegnere quella del fratello, che non sopporta. Uvaspina, nel disperato tentativo di far sopravvivere la sua luce, deve tenersela per sé; i propri pensieri, le proprie emozioni, deve tenerseli per sè, deve stare attento che la sorella non le scorga, perché se questo succede a Minuccia parte lo strummolo, l’impazzimento, e Uvaspina la pagherà cara.
Lo strummolo aveva un talento speciale nell’acchiappare ogni cosa nella sua traiettoria, persino i pensieri più segreti.
Uvaspina non può parlare della sua luce coi genitori (non capirebbero), non può mostrarla in classe (ne diventerebbe lo zimbello) e con la sorella, che è la persona a lui più vicina, deve addirittura nasconderla se non vuole subirne le conseguenze. Le continue umiliazioni che Minuccia infligge al fratello sono le umiliazioni che i guardiani della norma infliggono a chiunque voglia portare la luce della diversità. Il nostro mondo è pieno di strummoli a minacciarci, per paura di far partire i quali spegniamo, spesso, le nostre luci. E, a un certo punto, Uvaspina inizia a pensare di spegnere la propria; ma si tratta di una luce così intensa, così identitaria, che farlo significherebbe spegnere se stesso. E un giorno Uvaspina arriva a tentare il suicidio: nel mare di Posilippo, prova ad affogarsi ma…
Finalmente decise di lasciarsi andare e di consegnarsi a Posillipo, che significava pausa dal dolore. Fu allora che sentì una mano che lo prendeva per la caviglia e lo tirava fuori dall’acqua.
La mano che salva Uvaspina è quella di Antonio, destinato a diventare il primo amore corrisposto di Uvaspina. Perché è questo che ci salva, qualcuno che la nostra luce la vede, la desidera, la ama e ci aiuta ad amarla in noi stessi. Antonio dà a Uvaspina l’opportunità, salvifica, di esprimere la propria luce. Uvaspina non deve più solo reprimerla, con lui può finalmente esercitarla, condividerla. Ma di nascosto. Antonio ama Uvaspina e la sua luce, ma è anche consapevole che davanti agli altri deve recitare una parte in cui quella luce non è contemplata: e, infatti, davanti agli occhi del mondo dirà di amare Minuccia e ne diverrà il fidanzato ufficiale. Perché lo strummolo non sa solo minacciare, terrorizzare, punire, è abile anche a corrompere la luce che è sfuggita al controllo.
Lo strummolo se ne stava per i cazzi suoi, nel suo cielo in cui non ci stavano luce e astri, ma soltanto stelle annodate l’una all’altra con la corda.
Costrizione, impedimento, gabbia, contro l’ampiezza del cielo, l’infinito degli astri. Regole borghesi, castranti, inibitorie, che riescono ad avere la meglio sulla ‘sincerità’. E tornando a Monica, e alla sua di luce, quella della scrittura, la ‘sincerità’gioca un ruolo fondamentale, come l’aveva giocata nella vita di Alce nero per il quale sarebbe stato più facile fingere di non avere le visioni che aveva, di non conoscere le profezie che intuiva: sarebbe stato più facile non essere sincero, per non essere umiliato, deriso, isolato.
Monica ha avuto coraggio a esordire con un libro come Uvaspina. Se da una parte c’è Napoli, e una contingenza dell’immaginario favorevole alle storie che si ambientano in quei luoghi, in quelle atmosfere, dall’altra la scrittura di Monica è ferocemente sincera e porta in piazza una serie di registri e di contenuti che non piacciono alla nostra presente comunità profilattica. Monica entra, con tutte le scarpe, nell’acqua torbida della perversione umana, della cattiveria, dello squallore, e lo fa a costo di sentirsi dare della malata, della pervertita. Perché lo fa? Perché Uvaspina non riesce a non essere sincero? Perché Alce nero non ci riesce? Perché tutti loro, Monica compresa, non riescono a fare come Minuccia, come facciamo in troppi, annodando le stelle l’una all’altra, con la corda dell’ipocrisia, del perbenismo, fino a spegnerle, fino a vivere di luci artificiali, posticce, luci utili e tristi?
La domanda me la pongo perché la nostra comunità narratrice, e parlo del nostro paese, parlo degli ultimi decenni, un problema di ‘sincerità’ ce l’ha eccome. In vent’anni che vivo a narrolandia mi è capitato di conoscere, e bene, scrittori, registi, drammaturghi, attori, molto bravi. Ma ‘molto’nel senso di unici, con una cultura eccezionale, un controllo della tecnica magistrale, a tratti anche geniali. Ma spesso, la maggior parte delle volte, ahimè, li ho visti mancare l’appuntamento che fa di un potenziale capolavoro un capolavoro. Le mie ovviamente sono solo profezie personali, affidabili al pari di tarocchi fatti a persone che vivranno tra vent’anni. Il capolavoro, infatti, sfugge a qualunque valutometro reperibile al presente. Né il successo né l’insuccesso, né quello economico né quello della critica, possono dirci se un’opera è o non è un capolavoro. Soltanto il tempo. Ma tornando a questi da me ritenuti ‘mancati capolavori’, la ragione per cui li presumo tali ha a che fare con l’ego dei rispettivi autori, con quello che potremmo anche chiamare ‘piccolo Io’. Il punto è che l’ego non è mai sciamano. L’ego può essere narciso, può essere suscettibile, può essere vittimista, vendicativo, megalomane, ma sciamano mai, perché mai transpersonale. E il capolavoro ha bisogno proprio dell’esatto opposto: ovvero che l’autore scompaia dall’opera (occhio, questo non c’entra con il genere o con la tecnica narrativa; l’autore può scomparire dall’opera anche in opere autobiografiche, per dire). Il fatto è che l’autore del capolavoro riconosce che non è suo, che egli è soltanto un mezzo attraverso il quale il capolavoro si esprime. Ed è esattamente questo processo che io chiamo ‘sincerità’. Abbandonarsi a ciò che devi narrare, e non mettersi a tavolino, con i responsabili del marketing da una parte e i responsabili del marketing dall’altra (non è un refuso) e pianificare cosa conviene raccontare oggi, cosa conviene raccontare domani, cosa conviene pubblicare al proprio ego, al proprio conto in banca, alla propria carriera, al consiglio di amministrazione per cui racconti storie. Non c’è un termine più esatto per descrivere gli atteggiamentidi Minuccia nei confronti del fratello, della sua diversità, della sua luce, che ‘fascisti’. Minuccia è fascista: discrimina, intimida, punisce, elimina. E, purtroppo, non trovo un termine più adatto neanche per l’atteggiamento di tanta editoria e cinematografia nostrana, che pubblicano opere troppo uguali, troppo costrette in una fascio di stili e di contenuti comuni, frutto di operazioni di mercato e non certo di sincerità E questo è uno spreco culturale enorme, perché rimane molto raro che autori, seppur bravissimi, seppur dotatissimi, seppur geni addirittura, riescano, secondo queste modalità, a realizzare un capolavoro. Per scrivere un capolavoro bisogna essere (e bisogna lasciare che gli autori siano) autori sciamani, al servizio della tribù e non di se stessi.
John G. Neihardt, in Alce nero parla, racconta di quest’orazione che un capo tribù rivolge ai propri cacciatori migliori, prima di una sessione: «Eccellenti giovani guerrieri, parenti miei, so che il vostro lavoro è buono. Quello che voi fate è sempre buono: così oggi farete mangiare i deboli. Forse alcuni sono vecchi o deboli, senza figli, oppure sono donne con bambini e senza marito. Voi li aiuterete, e tutto ciò che uccidete sarà per loro».
Il punto è questo: Monica non uccide quasi mai per sé, quasi sempre uccide per ‘loro’. Uccide (scrive) per i diversi come Uvaspina, per i più deboli, per quelle creature che hanno bisogno che si racconti di loro e per loro. Perché nella diversità, sempre, c’è salvezza. Monica è davvero la persona con meno ego tra quelle che conosco che si occupano di scrittura. Se la frequenti ti accorgi che è quasi invisibile, o quantomeno che si accende della sua luce solo quando parla dei libri (degli altri o dei suoi). E quando scrive non lo fa per sé, lo fa per i personaggi, per le storie. Uvaspina è un capolavoro? Come dicevo sopra, difficile dirlo oggi, lo dirà il tempo; Monica Acito però sì. Monica è un capolavoro di sincerità, di sciamanesimo, di coraggio. Un capolavoro di scrittrice. Questo, oggi, posso dirlo. ♦︎