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In attesa di vedere l’attore inglese nel nuovo film di Cristopher Nolan facciamo un excursus sul suo film più personale. Vincitore dell’Oscar 2021 alla migliore sceneggiatura, l’ultimo film di Kenneth Branagh è un dramma autobiografico ambientato durante il conflitto nord-irlandese alla fine degli anni Sessanta. Girato ad altezza di bambino, con uno sguardo che prova a smorzare e attutire la cattiveria dei disordini. Il lungometraggio analizza la relazione tra cinema e televisione, ragionando sul rapporto tra immagine e realtà all’interno dei media.  

Branagh tra cinema e televisione

Buddy, piccolo alter-ego del regista, è un bambino che fa un sacco di domande, intento a cercare di comprendere ciò che succede intorno a lui. Quando però i suoi tentativi di decifrare la realtà falliscono, nell’impossibilità di capire davvero cosa non vada tra i suoi genitori o di dare un senso alle violenze cui è costretto ad assistere, Buddy, cerca rifugio nelle immagini della tv, del cinema e negli spettacoli di teatro dove spera di trovare le risposte che cerca.

Il film si apre e si chiude con alcune immagini a colori di Belfast oggi. La città sembra un gigantesco cantiere, un terreno in fase di ricostruzione dove il processo in atto risuona simbolicamente come il risanamento di certe ferite. Non è un caso infatti che nel bianco e nero della narrazione il colore si ripresenti solo quando si aprono scorci verso mondi-altri che accendono stupore o suscitano affetto. Nei cinema e nei teatri si cerca un orizzonte perduto. Qui ci si rivolge ai ricordi e ci si proietta nel futuro. Si cerca ciò che si è lasciato sfuggire o ci si rintana per sentire più lontana la guerra. Emblematica è la scena in cui la nonna di Buddy ricorda con nostalgia la visione in sala di Lost Horizon di Frank Capra.

Memorie perdute

I film scolpiti nella memoria della nonna, circondati da quell’aurea di innocenza tipica del ricordo, rivivono nell’universo televisivo a cui il ragazzino è tanto affezionato. Ne inquinano la quotidianità con la scala di grigi che gli contraddistingue.  

All’interno del piccolo schermo, nel salotto di Buddy, l’incessante cronaca delle ostilità si affianca alla messa in onda di classici del cinema. Pellicole come High Moon e The Man Who Shot Liberty Valance , con il loro bianco e nero si sovrappongono alla realtà mostrando uomini determinati a non giungere ad alcun compromesso. Film dove Buddy rivede gli attriti tra suo padre, che nella sua testa è il Cavaliere Solitario di Shane , e il responsabile delle sommosse Billy Clanton, che al bambino appare un bandito alla Lee Van Cleef.

 Ciò porta qualcosa di anacronistico e artificioso nella messa in scena di Belfast. Pur svolgendosi in un contesto storico ben preciso, il dissidio tra cattolici e protestanti scoppiato nel 1969, il film, in alcune scenografie e nell’apparire di alcuni figuranti – si pensi agli uomini che si aggirano nel buio con le fiaccole alzate per sorvegliare le strade del vicinato – ricorda la Hollywood smaccatamente classica di The Informer (John Ford, 1935). Il senso di realismo viene inghiottito e inglobato dalle immagini di quel cinema filtrato dal tubo catodico di cui Buddy ha la testa piena. 

Una visione infantile

Belfast non solo riflette su come l’immaginario televisivo abbia assorbito quello cinematografico: rimarca la differenza tra il fruire dei media in casa propria o in un luogo-altro.  La Tv irradia gli spettatori con visioni di un mondo in cui fiction e realtà vengono pericolosamente messi sullo stesso piano. Educando ad amalgamare immagini e vita quotidiana. Il cinema conserva quella barriera protettiva di “struttura adibita a”. Dove ci si rifugia in modo consapevole per essere proiettati in un mondo che vuole restare “altro”, senza per forza andare ad intaccare il modo di esperire il reale.

Buddy in una scena del film