Un viaggio intimo in cinque tappe nel Paese del Sol Levante, tra grattacieli, foreste di case basse e sperduti templi millenari. Terzo episodio
Kyoto è il vero Giappone, quello vecchio, quello dei samurai, delle geishe e dei giardini secchi davanti ai templi di legno. Ma Kyoto è anche la prova che questo non è il vero Giappone. Una posa messa lì per i turisti, per chi sogna di indossare un kimono e sfilare per il distretto di Gion proteggendosi dal sole con un ombrello in cotone. C’è però un lato di questa città che non tutti conoscono né immaginano esista. È quello degli edifici costruiti negli anni Novanta, con le loro facciate scolorite e le luci che lampeggiano prima di spegnersi. Due anime che sembrano non toccarsi. Tra tutte le città del Giappone che ho visto, credo che Kyoto, esteticamente parlando, sia la peggiore. Ci sono distretti antichi, palazzi storici, foreste di bamboo, luoghi che sembrano usciti dalle tavole Ukyio-e, ma il resto, tutto quello che non è attrazione turistica, è brutto.
Il mio ryokan, la mia locanda, è vicino al tempio Nanzenji, lungo il cammino che chiamano «Il sentiero del filosofo». Dall’esterno sembra un edificio tratto dal film Sayonara. C’è un cortile con una piccola aiuola in mezzo che divide l’entrata dalla strada. Dentro la moquette rossa e il legno delle pareti e dei mobili annerito dal tempo danno all’ambiente un tono decadente. C’è odore di chiuso, e d’incenso acceso per coprirlo. La camera è modesta, anche qui c’è un tavolino in mezzo a una stanza e il futon arrotolato a terra. Mi avvicino alla finestra per guardare fuori e noto un insetto che è rimasto impigliato nella zanzariera. È una cicala che frinisce diversamente da quelle che ci sono da noi, un suono più metallico, simile a quello della macchina quando non ti metti la cintura. Cerca di scappare, si divincola, senza riuscirci.
Oggi è il 12 agosto, dieci giorni fa, più o meno quando sono atterrato a Tokyo, sul sito della Japan Meteorologica Agency un meteorologo comunicava un’allerta tifone per gli abitanti delle isole sudorientali e per tutti i naviganti. I tifoni sono delle basse pressioni che solitamente si formano nella parte meridionale dell’oceano Pacifico. Si stima che durante la stagione estiva sul Giappone si abbattano in media dieci tifoni – il numero è variabile a seconda dell’anno. Nella storia ci sono stati tifoni capaci di distruggere intere città, come per esempio Isewan, che nel 1950 causò circa 5000 vittime. Per i giapponesi l’organizzazione è un aspetto fondamentale della società, per cui non c’è da stupirsi di fronte alle scrupolose procedure da seguire quando arriva un tifone. I gradi di allerta sono differenziati per colori che vanno dal giallo al rosso. Prima di tutto si evacuano gli anziani e i disabili, i quali vengono allontanati dalle abitazioni e portati in luoghi più sicuri, come scuole o edifici pubblici. Il tifone che il 2 agosto veniva battezzato come Lan è arrivato vicino alla costa, le grafiche pubblicate dalla Japan Meteorologica Agency mostrano che è a poche miglia dalla prefettura di Wakayama. Si stima che durante la notte arriverà qui, a Kyoto. Ho chiesto consigli su come comportarmi al titolare del Ryokan e lui mi ha detto di stare al chiuso, che passerà in fretta.
Questa sera ho un appuntamento con una persona che ho contattato online. Si chiama Sōta e studia Cha no yu, la cerimonia del tè. Avevo letto la storia di Sōta su un blog mesi prima di partire e ho deciso di incontrarlo per una frase di Alessandro Baricco, in cui affermava che la cerimonia del tè è la cosa più simile alla scrittura. Cha no yu in giapponese significa «Acqua calda per il Tè», ed è il nome con cui si identifica la pratica di preparazione del tè Matcha, quella polverina verde che oggi siamo abituati a vedere proposta nelle caffetterie come matcha latte.
Viene chiamata Sadō o Chadō, La Via del Tè: «D’inverno proporre il caldo, d’estate proporre il freddo», questo è quello che occorre per preparare un buon tè secondo il maestro Sen no Rikyū, vissuto tra il 1522 e il 1591, considerato il più importante esponente dello stile wabi-cha. Il wabi-cha differisce dal wabi-sabi (visione fondante dell’estetica giapponese) perché al concetto di wabi, cioè di semplicità assoluta, invece del termine sabi (letteralmente «patina del tempo») si aggiunge quello di cha, cioè «tè». Il wabi-cha porta il tè al livello dell’essenza, spogliandolo di ogni attributo per ricongiungersi, attraverso l’estrema povertà, con la sua parte più elementare.
Mentre raggiungo l’indirizzo del locale dove incontrerò Sōta, il tifone si avvicina e comincia a piovere. Le gocce non sono né grandi né piccole, ma costanti, e le nuvole non si distinguono più, sembrano una coperta scura stesa sopra la città. Percorro a piedi strade lunghe disseminate di casette basse, tutte diverse tra loro e ognuna con la propria identità. Qui non c’è nessuna coerenza architettonica tra gli edifici, è l’insieme di tante forme opposte tra loro a caratterizzare ogni paesaggio urbano. La pioggia si fa insistente e non riesco più a tenere il cellulare in mano con le indicazioni di Google Maps. Mi riparo sotto una tettoia e cerco di memorizzare la strada guardando la linea blu sullo schermo. Dopo un po’ lo metto via. Sono fradicio, decido di aspettare che diminuisca e mi fumo una sigaretta. Rimango a osservare l’acqua che cade, non ci sono fulmini che illuminano il cielo e si è alzato un po’ di vento. La città è vuota, non ci sono macchine che girano o bus, solo qualche passante con addosso mantelle trasparenti di plastica, quelle che qui si comprano nei convenience store, delle specie di minimarket che vendono un po’ di tutto.
In Giappone esistono cinquanta modi per dire pioggia, ognuno dei quali rappresenta una diversa sfumatura di questo fenomeno. Suppongo che solo in una lingua complessa come il giapponese si possano trovare così tante espressioni per descrivere la stessa cosa: è il risultato di tutti i kanji (uno dei sistemi di ideogrammi) che descrivono la pioggia fine, la pioggia leggera, la pioggia bassa, la pioggia torrenziale. Ce n’è uno in particolare che mi colpisce: Shūchū gōu shi yuuchuugouu, la pioggia che si concentra sia nel tempo che nello spazio.
Mi vibra il telefono, è un messaggio di Sōta: chiede di rimandare il nostro appuntamento a causa del tifone, si scusa e mi invita a casa sua domattina. Rispondo con un okay e lo ringrazio per l’invito. Torno indietro verso il Ryokan. Camminando mi rendo conto che il vento si è alzato ancora di più. Il quartiere dove mi trovo si chiama Pontocho, le vie sono strettissime e le lanterne rosse fuori dai locali illuminano la notte. Solitamente questi vicoli sono pieni di gente che passeggia, ma adesso appaiono deserti. Kyoto si prepara ad accogliere Lan. Mentre vado verso il fiume noto la luce di un bar riflettersi in una pozzanghera. Entro dentro per asciugarmi e bere qualcosa. Appena varco la soglia trovo una fila di persone stipate su sgabelli alti accanto a un bancone. Il titolare mi allunga con la mano un panno per asciugarmi la faccia: accetto e mi inchino per ringraziare. Ordino un whiskey highball e accendo un’altra sigaretta. Dalle casse poste negli angoli della stanza, si sentono delle canzoni di Edith Piaf e se non fosse che sono l’unico occidentale potrei tranquillamente immaginare la stessa scena ambientata in un piccolo bistrot di Montmartre a Parigi. Sarà per come sono fatti gli sgabelli, alti e con le sedute rivestite di pelle bordeaux, o il bancone, con un corrimano in ottone che luccica illuminato da lampade che scendono dal soffitto. Perfino la fila di superalcolici europei con le etichette un po’ sbiadite mi riporta a quell’atmosfera. Dopo un po’ che gioco con il bicchiere facendo roteare il giacchio all’interno, entra una donna. Tutti nel locale si voltano a guardarla. È una maiko.
Le maiko sono le le apprendiste geishe. Giovani ragazze che studiano l’antica tradizione della geisha per diventare esperte nella pittura, nella danza, nel canto e nell’arte della conversazione. Sono riconoscibili per il modo in cui si truccano, che comprende una base bianca con dettagli rossi e neri, per i loro kimono in setae per le acconciature elaborate, spesso adornate da fermagli preziosi. La vita di una maiko è intensa e disciplinata, prevede anni di formazione nelle varie arti tradizionali giapponesie, raggiunto un certo livello di maestria nelle arti che sta studiando, può diventare una geisha. La sua eleganza non sta solo nel modo in cui si veste o si trucca, bensì nei suoi modi. Il trucco bianco sul viso la trasforma nella maschera di un teatro dedicato esclusivamente agli uomini.
Ma la maiko che è entrata e che ora si è seduta accanto a me non ha questo aspetto. Il suo kimono è zuppo d’acqua, i capelli sciolti e spettinati e il trucco sbavato fanno emergere una ragazza che avrà al massimo vent’anni. Ordina anche lei un whiskey highball e si accende una sigaretta. Poi poggia i gomiti sul tavolo e lascia cadere la fronte sul bancone. Un tizio accanto a me la guarda con un’espressione stupefatta. È come se la pioggia avesse lavato via il suo personaggio e le avesse permesso di tornare la ragazza che è. Forse anche lei, come me, aveva un appuntamento stasera. Sicuramente con un uomo, un ricco uomo d’affari disposto a pagare per la sua semplice compagnia. Non bisogna fraintendere, in Giappone c’è un profondo rispetto per le geishe e le maiko. Non sono prostitute, ma artiste, simboli di una cultura che sta scomparendo. Kyoto e in particolare il distretto di Gion rappresentano l’ultimo baluardo di questa tradizione.
Ripenso a quel kanji sulla pioggia che si concentra nel tempo e nello spazio; trasforma le cose, le porta all’essenza del presente facendo emergere la loro vera natura. E dietro la cipria bianca sbavata e la matita nera ormai sfumata c’è una ragazza che fuori da Gion, in un bar, mentre un tifone si abbatte sulla città, si sente libera di appoggiare i gomiti sul tavolo, ordinare un drink e sciogliersi i capelli. Incrocio il suo sguardo, le sorrido, le sue labbra restano immobili. D’istinto vorrei scattarle una foto. Ma non è consentito fotografare una maiko. A Gion nelle vie dove si trovano le case in cui si esibiscono ci sono dei cartelli che vietano ai turisti di scattare foto o di registrare video. Qui in questo locale potrei farlo, probabilmente nessuno mi direbbe niente. Resisto. Non voglio rubarle il suo momento d’intimità. Sulle note di Je ne regrette rien pago il conto. Così mi alzo ed esco. Prima, però, la guardo un’ultima volta.
Torno verso il ryokan. Arrivato in stanza vado vicino alla finestra per vedere se c’è ancora la cicala. È li intrappolata tra la zanzariera e il vetro, trema per le raffiche di vento, non canta più, forse è morta. Yau yau è la pioggia notturna, quella che senti battere sul tetto mentre chiudi gli occhi e ti addormenti.
Mi sveglio verso le cinque del mattino con una notifica di allerta sul cellulare. Il colore è diventato arancione, gli anziani e i disabili vengono evacuati, c’e il rischio di alluvioni. Cerco di riprendere sonno ma non ci riesco, così decido di mettermi a leggere, tiro fuori un libro e aspetto che arrivino le sette. Scendo per le scale, poi mi siedo all’entrata e infilo le scarpe. Come faccio per uscire, il signore della locanda mi rincorre. Dice che non è sicuro, gli autobus e i mezzi pubblici sono sospesi, mi consiglia di tornare in stanza. Gli spiego che ho un appuntamento, sicché lui insiste per chiamarmi un taxi e alla fine accetto. Il vento fa cadere la pioggia di traverso, l’aria è talmente umida che è difficile persino respirare. In alto, dal lato opposto rispetto alla città, gli alberi di bamboo si piegano con le raffiche.
Siccome solo il 30% del terreno è edificabile, i giapponesi abitano prevalentemente le coste, cosa che rende le città esposte a tsunami e i tifoni. Ma la relazione che questa gente ha con la Terra è qualcosa di profondamente radicato. Nella religione Shintoista quello tra uomo e natura è un rapporto di devozione. Tutti gli elementi del mondo naturale come alberi, fiumi, rocce e montagne vengono considerati spiriti sacri chiamati kami.
Passando in mezzo alla parte nuova di Kyoto tutti i negozi sono chiusi, città così deserte non le vedevo dal periodo dalla pandemia. Mi chiedo se non sia stato imprudente uscire dalla locanda. In fondo, questo mi sembra solo un brutto temporale, e perdere anche solo un giorno del mio viaggio mi sembra un delitto. All’indirizzo dove il taxi mi fa scendere c’è una casa con un giardino, qualche scalino in pietra precede una porta d’entrata scorrevole. Suono al campanello ed esce subito un ragazzo giovane con indosso uno yukata blu. È Sōta che mi corre incontro con un ombrello.
Entriamo in casa sua. È una di quelle tradizionali con il tatami, le porte scorrevoli e i mobili bassi. Mi fa accomodare a terra in una stanza luminosa che dà sul giardino. In un angolo c’è una kama di ceramica con delle decorazioni floreali disegnate sopra, accanto degli utensili in legno sono disposti in modo ordinato: il chawan (la tazza per il tè Matcha), il natsume (dove viene contenuto il tè), il chasen (il frullino di bamboo) e il chashaku (il dosa-tè di bamboo). Mi offre un tè verde tiepido e iniziamo a chiacchierare.
Così Sen no Rikyū spiega la cerimonia del tè. Come in queste parole, anche qui nella stanza dove mi trovo la natura è presente ed entra in ogni cosa, dalla forma della tazza che ricorda una roccia, al rumore del vento che sibila tra gli infissi. Ripenso a quella frase di Baricco sulla scrittura e la cerimonia del tè. Anche raccontare è qualcosa che tutti fanno senza pensarci, nel loro quotidiano, quando descrivono un ricordo, un aneddoto della loro vita. Eppure, mettersi a sedere e scrivere quello stesso ricordo è tutto un altro affare. Come il tè si offre all’ospite, quello che si scrive si offre al lettore, che in entrambi casi è protagonista. Tutte e due queste arti hanno come fine ultimo la ricerca della perfezione. Il luogo dove la cerimonia viene praticata, il chashitsu,significa stanza del vuoto. E in quello stesso vuoto che chi scrive esercita la propria arte: solo che non è una stanza, ma una pagina bianca, vuota, da riempire.
Dopo avere bevuto il Matcha Sōta mi invita a restare da lui finché la pioggia non sarà diminuita. Accetto e rimango seduto a guardare fuori. Anche lui resta accanto a me in silenzio. Fūu-fū è la pioggia che si mischia al vento. Ed è l’ultima pioggia che vedo cadere su Kyoto prima di andarmene.
Mentre sono sul treno diretto a Osaka penso alla maiko, a Sōta, ai palazzi brutti di Kyoto e all’enorme Pagoda che regna sul distretto di Gion. Posso dire che del Giappone ho capito una cosa: dietro la bellezza e l’estetica si cela tutta l’emotività di questo grande paese, con i suoi lati chiari e con quelli più scuri. Quando l’oscurità emerge, un tifone arriva all’improvviso e ferma tutto, spezza gli alberi, scoperchia le case, ribalta le macchine, uccide. Ma poi, quando passa, torna l’eleganza. Che al pari della cipria bianca trasforma i volti dei giapponesi in maschere di teatro.
Testi e fotografie di Umberto Ferrero