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Il ritorno di Luc Besson nella sale è di quelli che non ti aspetti, un thriller surreale come non se ne vedevano da tempo. Dogman costruisce un gioco di specchi tra forma e sostanza, dove cinefili e cinofili firmano la tanto agognata pace idiomatica.

Difficile ricordare una scena iniziale tanto seducente come quella girata in Dogman. Un uomo travestito da Marilyn Monroe viene fermato dalla polizia a notte fonda mentre guida un camion pieno di randagi, i suoi ‘figli’. La psichiatra Evelyn (Jonica T. Gibbs) – madre incerta e figlia giudicata – chiamata a confrontarsi con l’audace conducente (un Caleb Landry Jones consacrato definitivamente) prova a scavare a fondo, sorpresa dal trovarsi di fronte uno spirito gentile e accomodante nel raccontare la storia di un dolore nel quale un po’ si rispecchia. Come è facile immaginare in questi casi, la ragione di una conversione esistenziale è individuabile nel più classico dei traumi infantili, spesso derivante da una famiglia disfunzionale.

L’infanzia, il tormento, la redenzione

La gabbia dove viene rinchiuso Douglas dal padre nel prologo di Dogman non si limita a ‘ospitare’ i suoi coinquilini a quattro zampe. Racchiude al suo interno emozioni distrutte, aspettative disattese e sogni infranti. Quelli di un bambino colpevole di una sensibilità raffinata, scomoda agli occhi di un genitore sbagliato nella famiglia sbagliata, forse degno di compassione da parte di chi prova ad appellarsi a tutta l’intelligenza emotiva di cui dispone. Da qui in avanti quel bambino verrà ferito ripetutamente. I colpi inferti da una famiglia bigotta sono solo il preludio di un’esistenza condizionata da una sedia a rotelle, un amore non corrisposto, una fede in Dio troppo pesante per non vacillare.

Fotogramma di Dogman © 2023 Luc Besson / LBP, EuropaCorp, TF1 Film Productions
Fotogramma di Dogman © 2023 Luc Besson / LBP, EuropaCorp, TF1 Film Productions

Il conforto di un’anima è compito arduo se affidato ai propri simili, tanto nella forma, meno nella sostanza. Questo sembra suggerire il regista francese, perché se è vero che un bambino prende l’affetto che trova, la ricerca della felicità appare più tortuosa del previsto.

Come Mowgli nella giungla, il cucciolo d’uomo abbandonato raccoglie i cocci di un’infanzia perduta, si fa uomo, diventa il signore dei cani, più Sméagol che Frodo. Con il teatro shakespeariano e una laurea in biologia tenta di riconciliarsi con la bellezza tenuta nascosta dalla severità del mondo. Ma non basta. Per lui il confronto con gli esseri umani non è mai foriero di buona sorte, semmai il contrario. E da qui scaturisce la consapevolezza di quanto la natura canina si elevi ben al di sopra di quella umana. «I cani hanno bellezza senza vanità, forza senza insolenza, coraggio senza ferocia». Il migliore amico dell’uomo, no? Sarebbe riduttivo. In loro Douglas trova la sua ragione di vita, ne trae forza per alimentare la disperata voglia di rivalsa nei confronti di una società che a partire dalle gambe gli ha tolto tutto. La dignità, quella no.

Chi è Dogman?

Besson ci ha abituati a una decostruzione funzionale dei suoi protagonisti, un po’ giustizieri, un po’ antieroi. Lo fece con Léon a inizio carriera, e in Dogman non è diverso, con il passaggio da ragazzino impaurito a equilibratore di soprusi. Una crescita esponenziale che passa attraverso l’investigazione dell’io più profondo. In cerca di lavoro, Douglas riconosce nel teatro la migliore via di fuga da se stesso. È la meraviglia del grottesco che attraverso gli spettacoli di Drag Queen si traduce in un viaggio astrale nei panni di Édith Piaf, Marlene Dietrich e Marilyn Monroe, per scorgere nello specchio nuovi riflessi di sé.

Eccola, la tanto decantata dicotomia tra il bene e il male (ammesso che sia mai esistita all’infuori della nostra percezione). Dogman si carica sulle spalle l’ingrato compito di squarciare ogni velo di Maya possibile. Punta i riflettori sull’identità frammentata di un uomo capace di amare, odiare e uccidere a seconda delle inclinazioni di una società mai realmente appartenutagli. Quanto possono coesistere la dolcezza di una puntina sul vinile e la mano ferma sul grilletto di un fucile a pompa? La trasversalità di Douglas sembra suggerirci la risposta.