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La premessa e la promessa sono quelle di essere breve, il desiderio è quello di dire qualcosa che sarà letto da chi queste cose solitamente non le leggerebbe. Non sono qui in veste di esperta per parlare con autorevolezza di teorie, e giuro che ogni parola sarà usata con l’intento di avvicinare, e non per far storcere il naso. Parlo in quanto donna, figlia, fidanzata, collega e amica. E non vorrei parlare solo agli uomini, ai figli, ai fidanzati, colleghi e amici. Vorrei parlare a tutte le persone che si spazientiscono in fretta quando si parla di violenza sulle donne. Che sbuffano quando viene tirato in mezzo il patriarcato, e che si incazzano irrimediabilmente (e lì è finita: nel senso che smettono di leggere o ascoltare, e rivolgono la propria attenzione altrove) quando viene attribuita loro una responsabilità. 

Questa ennesima vicenda è stata un po’ meno ennesima delle altre, ci ha tenuti attenti e in attesa per una settimana e, una volta conclusasi per il peggio, tanti hanno avuto qualcosa da dire. Perché erano molto giovani, perché lui sembrava un ragazzo ‘normale’, perché ci sono finite di mezzo due famiglie dell’Italia media, perché c’era una laurea in arrivo, un profilo Instagram con il dump dell’estate, perché tutti conosciamo due studenti come loro. Perché la violenza, questa volta, ci è sembrata vicina veramente. 

In questi giorni l’attivismo è acceso più che mai, spronato dalla sorella di Giulia Cecchettin che ha metaforicamente chiesto un gesto diverso rispetto al proverbiale minuto di silenzio, e questa ondata di forza si è riversata nelle strade di ogni città. La voce del femminismo si è fatta più forte, più sicura, e per quelli che di femminismo ne masticano poco, anche più aspra. Vorrei arrivare proprio a chi prova quel sottile fastidio, magari senza dirlo ad alta voce, chi si sente un pochino irritato quando in queste ore legge la parola «responsabilità»: da un giorno all’altro succede una cosa tremenda ai danni di una donna, per mano di un uomo, e arriva inarrestabile una fetta dell’Italia che sembra additarvi, uomini, implicare la vostra presenza in una sorta di ombra silenziosa sulla tragedia. Vorrei parlare a quelli che hanno pensato «ma io non sono così, cosa c’entro?», sentendosi tirati in mezzo a una brutta cosa che si, è successa, ma non capiscono perché dovrebbe riguardare proprio loro. 

Non elencherò tutti quei comportamenti che – in questi giorni sicuramente hanno avuto modo di sentirsi ripetere – nascondono uno strato impalpabile e sottile di quella sostanza che alimenta le violenze, e che forse li hanno fatti ancora più incazzare, perché «io non ho mai fatto revenge porn!». La verità è che tutti conosciamo uomini che non sono ‘così’, ma la verità è anche che ‘così’ è un concetto profondo come un abisso: e ci si perde facilmente, nel buio di questo abisso, tanto da non capire neanche cosa si sfiora. Non lo sappiamo, lo ignoriamo perché non lo capiamo, ci siamo capitati dentro con una risata di troppo, una battuta, un commento. E la beffa è che c’è persino di più: nel buio, non vedi da che parte sei girato, e finisce, inconsciamente, che ti giri dall’altra parte. Sento che la verità è una sola, in fondo a tutte le parole che possiamo partorire, sul perché la violenza sulle donne riguardi anche gli uomini che non sono ‘così’: risalire l’abisso è un lavoro faticoso. E lungo, oltretutto. 

25 novembre
Ricucire l’abisso è un lavoro a quattro mani

Vorrei parlare a quegli uomini che non sono ‘così’, e proprio perché non sono così, e visto che parlare predispone due parti, vorrei che questi uomini mi parlassero a loro volta. È utopia? Sto chiedendo loro di imbarcarsi per una missione ben precisa, compiere un grande sforzo per familiarizzare con l’attenzione ai dettagli, provare a domandarsi spesso il perché delle cose, abbracciare il conflitto interno ed esterno del cambiamento che prova ad avanzare. Quindi forse sì, è un po’ un’utopia, nel senso che è un impegno senza data di scadenza, e chiunque sarebbe nella posizione di declinare gentilmente l’invito. Perciò credo che possano aiutarmi, nel distribuire l’invito, le donne vicine agli uomini ‘non così’: potrebbe aiutarli pensare che lo sforzo è per loro, per quelle donne, e potrebbero pensare di condividere quello sforzo immane, un po’ per volta. Vorrei invitarvi nella conversazione, vorrei che ne parlaste un po’ di più, come si parla di tutti i problemi di cui parlate già. Vorrei che ne parlaste con una donna, con un altro uomo, con un vostro amico, padre, fratello, zio, e senza neanche accorgervene, parlarne significherà e contribuirà a creare un ambiente dove gli uomini ‘così’ sono pochi, inospitali, e a disagio. Finché di uomini ‘così’ non ne cresceranno più, e allora saranno un lontano ricordo, il costume di una società abbandonata, qualcosa che si vede sui documentari che raccontano il passato.

È utopia? No, non lo è, lo vedo sulla mia pelle. E se della mia pelle, più che giustamente, non vi fidate neanche un po’, fidatevi dei vostri stessi occhi quando leggono che 14 anni fa lo stalking non era considerato un crimine punito dalla legge. E che 27 anni fa la violenza sessuale non era considerata reato contro la persona. E che 42 anni fa esisteva ancora il matrimonio riparatore per gli stupratori che non volevano finire in carcere, e che la ius corrigendi, il diritto dell’uomo a educare e correggere, anche con l’uso della forza, la moglie, è stata abolita solo 67 anni fa. Non è utopia, è solo un lavoro microscopico di resilienza maniacale, a lunghissimo termine, un ricucire l’abisso fino a prosciugare l’ultima goccia di violenza. È un lavoro per cui due mani non bastano, ne servono quattro. ♦︎


Illustrazione di Lara Milani

Questo articolo nasce da una collaborazione tra NoSignal Magazine e Donnexstrada