Una storia quasi ordinaria
Ken Loach dà l’addio al cinema con The Old Oak, un film che riflette in maniera disincantata (ma non troppo) sulla grande attualità dei fenomeni migratori in relazione alla guerra in Siria legandoli a doppio filo con la piccola vita di una piccola città che fatica a rimanere viva a causa dell’inesorabile scorrere del tempo e di un ‘progresso’ che, molto spesso, non guarda in faccia a nessuno dimenticando periferie sia fisiche che ‘esistenziali’. Una storia che potremmo anche leggere sui nostri giornali nazionali.
In un paesino del nord dell’Inghilterra, situato nella contea di Durham molto probabilmente, arriva un pullman carico di profughi dalla Siria. Le reazioni degli abitanti di questa piccola città già alle prese con un continuo, lento, apparentemente inesorabile decadimento, sono varie e vanno dall’aperta ostilità fino alla pressoché totale accettazione. A tentare di unire queste due comunità sono TJ Ballantyne, il proprietario del pub The Old Oak – uno degli ultimi spazi pubblici del paese – e Yara una giovane donna siriana amante della fotografia.
«Piccola città, bastardo posto» cantava qualcuno e Ken Loach filma qualcosa di simile. Una cittadina che si trova, di punto in bianco, a dover far fronte all’inaspettato arrivo di richiedenti asilo in fuga dalla Siria. Questa piccola città potrebbe essere un qualsiasi piccolo paese italiano già provato dal tempo e che si è trovato nella stessa situazione, con gli abitanti che si dividono rispetto all’accoglienza; questo film è una storia comune e per certi aspetti ormai all’ordine del giorno.
È una storia così comune che il cineasta di Nuneaton, assieme al suo fidato sceneggiatore Paul Laverty, sceglie di trattare nella maniera quanto più possibile vicina al documentario; una dichiarazione di intenti che si esplica fin dall’inizio della storia, dal primo incontro fra i profughi e gli abitanti della città.
Il film comincia con semplici foto in bianco e nero degli abitanti del paese, immortalati proprio all’arrivo dei nuovi arrivati, mentre ne sentiamo le voci fuori campo. Voci che inveiscono, che esprimono dubbi e perplessità ma anche comprensibili polemiche per una situazione che si vedono calare dall’alto senza aver avuto il benché minimo preavviso. È la perfetta introduzione a tutto ciò che ne seguirà: una storia che potrebbe essere realmente ordinaria per molte cittadine che tutti i giorni si trovano in questa situazione.
Ken Loach, per raccontare questa sua visione del quotidiano, sceglie tre punti fissi: due persone e un locale. Il pub The Old Oak, che diventa il centro delle discussioni, campo di battaglia dove due modi di vedere le cose collidono ma, in certi casi, provano a trovare una mediazione positiva proprio grazie agli altri due punti fissi di The Old Oak: Yara e TJ, i due protagonisti del film.
I due vengono da due mondi completamente diversi entrambi però conoscono le miserie della vita: una le ha vissute nel suo paese dilaniato dalla guerra, l’altro le nota nel proprio passato e nella città che si sta spegnendo poco a poco e che, dall’arrivo dei profughi, mostra il suo meglio ma, al contempo e in maniera naturalmente più rumorosa, tutte quelle bassezze di cui può essere capace un essere umano: commenti impropri, atti di violenza, bullismo e altre nefandezze di cui cade vittima, anche in maniera piuttosto tragica, lo stesso TJ. Sarà però solo grazie alla tenacia di entrambi che si potrà arrivare a un finale che non risolve nulla di ciò che si è visto fino a quel momento ma che lascia le porte aperte a una speranza di continua accoglienza reciproca.
L’addio alla settima arte di Ken Loach è una storia che racchiude, anche solo citandoli per battute e immagini, i grandi temi da lui più sentiti e narrati lungo una carriera cinematografica cominciata nell’ormai lontano 1967. Le lotte per i diritti dei lavoratori, la classe operaia inglese, le famiglie sfasciate o disfunzionali, le famiglie che tenacemente resistono, il tessuto sociale fuori dalle grandi città lasciato praticamente a se stesso e la mai dimenticata violenza sugli animali; in The Old Oak si trova tutto questo e presentato sempre senza alcun filtro.
Con questa sua ultima opera Ken Loach ha scelto però un finale diverso dai soliti. Un finale aperto, come già accaduto nella sua filmografia ma, finalmente (letteralmente) il cineasta del Warwickshire saluta il proprio pubblico con un finale meno grigio del solito che non chiude praticamente nulla di ciò che si è aperto lungo il fluire del racconto ma lascia aperto tutto, spalancando la fame di un maggior minutaggio per un film che ha avuto il pregio di raccontare un’altra volta, l’ultima, le periferie, i sobborghi della vita reale. ♦