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Nella periferia della contea di Garissa, a 80 km dal confine con la Somalia, sorge quella che è l’attuale terza città più popolosa del Kenya: Dadaab. Eppure non vi sono case, non vi sono strade, e tanto meno negozi. Nessun palazzo si erge dalla brulla terra per toccare il cielo con la sua sommità. Dadaab non è una città come siamo abituati a immaginare.

Dadaab è un campo profughi, il più grande al mondo. Agglomerato di cinque distinti campi per rifugiati, la ‘città’ accoglie al suo interno più di 300.000 persone, la maggior parte proveniente dalla vicina Somalia. Solo nel 2022 sono giunti al campo 45.000 esuli somali e le stime parlano di altrettanti nuovi arrivi nel 2023.

La situazione si è fatta sempre più disastrosa nel corso del tempo a causa del sovraffollamento, della mancanza di risorse alimentari e della scarsità di medicinali per far fronte alle epidemie che spesso colpiscono il campo, quali il morbillo e il colera. Gli operatori dell’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati che gestisce il campo profughi, stanno lanciando sempre più appelli per trovare finanziamenti esterni che permettano alla loro attività di proseguire. Alcuni degli stessi abitanti di Dadaab, quelli che sono nel campo da più anni, sono entrati a far parte del corpo degli operatori comunitari e si stanno adoperando per raccogliere fondi.

Ma cosa ha spinto così tanta gente a lasciare la sua terra e i suoi averi per condurre un’esistenza da sfollata? Che cosa ha indotto persone che avevano un’attività nel loro Paese, animali da allevare e terre da coltivare, ma anche negozi e ristoranti, a chiudere bottega e cedere tutto per pagare il viaggio verso questo territorio desolato?

La guerra civile in Somalia

La prima e principale causa che ha costretto centinaia, migliaia di persone a lasciare il loro Paese e cercare un posto migliore oltre i confini natii è la guerra. In particolare, il conflitto civile esploso in Somalia nel 1986 con la rivolta contro il regime di Siad Barre, e inaspritosi nella seconda fase, dal 1991, per lo scontro fra le fazioni opposte del presidente ad interim Ali Mahdi e del generale Aidid. Una guerra infinita che perdura da più di trent’anni e che ha reso invivibile questo Stato dell’Africa Orientale.

Il campo profughi di Dadaab fu aperto proprio nel 1991 per ospitare i rifugiati somali che fuggivano dal loro Paese perché non più sicuro.
Uomini e donne hanno iniziato a spostarsi in Kenya per scappare alle persecuzioni del governo e per mettere in salvo i loro figli. Per i bambini somali, infatti, non c’era prospettiva futura e non c’è tutt’ora: le femmine vengono vendute come spose e costrette a rimanere incinte ancora adolescenti, mentre i maschi vengono strappati alle famiglie e trasformati in combattenti per l’uno o l’altro schieramento.

Inizialmente il campo di Dadaab doveva ospitare un massimo di 90.000 persone e, come ogni campo profughi, doveva essere una sistemazione provvisoria. Il protrarsi della guerra civile ha, però, reso necessario mantenere aperto l’accampamento per l’incessante arrivo di rifugiati è andata degenerando. Il campo è diventato, di fatto, una struttura permanente, e gli ospiti hanno già raggiunto un numero 3 volte superiore a quello previsto alla sua costruzione, con tende che sono arrivate a contenere 12 persone ciascuna. Lasciamo immaginare quali possano essere le condizioni igieniche, oltre che la penuria di cibo e acqua, beni già rari e preziosi in una zona del Kenya praticamente desertica.

I somali non sono, comunque, gli unici esuli che popolano la tendopoli. I rifugiati arrivati a Dadaab a causa dei conflitti che devastano i loro territori provengono da vari Stati del Continente Nero. Le guerre civili, le dittature spietate travestite da democrazie, i golpe militari e il terrorismo di gruppi jihadisti sono diffusi un po’ ovunque in tutta l’Africa, specialmente nella parte orientale, nel Sahel.

Tra le varie etnie presenti a Dadaab, quella bantú si è fatta notare maggiormente, con gli Stati Uniti che dal 1999 hanno inserito in agenda l’attivazione di un piano speciale per il trasferimento delle persone appartenenti a questo gruppo etno-linguistico negli stessi USA. Ma, negli ultimi anni, alle guerre si è aggiunta un’ulteriore calamità che ha spinto le persone a cercare rifugio nei campi profughi: il cambiamento climatico.

La grande siccità e i migranti del clima

Le migrazioni causate dal cambiamento climatico erano già state previste nella Conferenza sul clima di Parigi del 2015, ma, forse, i Paesi sviluppati non hanno mai dato loro molto peso. Spesso se ne sente tutt’ora parlare come una delle future conseguenze della repentina modificazione che sta subendo il clima. Il problema, tuttavia, è già attuale e concreto.

In Somalia, come in molte altre zone dell’Africa, la stagione delle piogge è stata scarsa quando inesistente negli ultimi anni, le poche fonti d’acqua si sono prosciugate e allevatori e agricoltori sono stati costretti ad abbandonare la loro attività.Queste persone, private della loro unica fonte di sostentamento, hanno iniziato a spostarsi verso altre zone alla ricerca, fondamentalmente, di cibo e acqua. I paesi si spopolano e così anche chi ha negozi e locali non può fare altro che chiudere la sua attività e partire. Un’emigrazione ne genera un’altra in un effetto a catena che può portare a conseguenze drammatiche come quella che si sta verificando a Dadaab.

Ma quello della regione keniana è solo l’esempio più eclatante di sovraffollamento dei migranti ai confini degli Stati di arrivo o transito. Problemi simili hanno infiammato il dibattito politico e sociale in Europa negli ultimi anni, benché siano praticamente nulle le risoluzioni prese sinora dai governi dei Paesi interessati. E intanto la pressione dei migranti ai confini si intensifica, di pari passo con la velocità con la quale si presentano i fenomeni legati al cambiamento climatico.

La stessa Dadaab è stata colpita di recente dagli effetti del climate change e, dopo cinque stagioni delle piogge mancate, la diga che forniva acqua all’intero territorio si è completamente prosciugata, privando dell’unica fonte idrica tutti gli abitanti del campo profughi oltre che i pastori nomadi keniani e somali che abitualmente transitavano in questa regione.

dadaab
Dadaab, il campo profughi più grande del mondo

Dadaab città informale

Guerre e cambiamento climatico hanno costretto 300.000 persone a emigrare e a stabilirsi in un territorio privo di qualsiasi struttura civile.
Il governo del Kenya non da possibilità ai rifugiati di lasciare il campo per cercare lavoro in altre città, o di avviare una loro attività. Pochi sono i fortunati che hanno potuto andar via da Dadaab e la permanenza media di una famiglia al campo è comunque di 17 anni.

Ai giovani non è consentito andare a scuola e l’istruzione che viene impartita loro al campo è solo di base. Il 42% dei ragazzi in età scolare non frequenta, in realtà, alcun percorso di studi. Molti ragazzi perdono ogni speranza e si abbandonano alla droga, un dramma sociale sempre più diffuso nel campo. Le ragazze devono persino stare attente ad allontanarsi dalle tende perché sono frequenti gli episodi di aggressioni e stupri.

Da anni il governo keniano non registra più migranti, ma si limita a contarli, allo scopo di indurre la comunità internazionale a occuparsi di loro. In questo modo il Kenya sta cercando di mostrare al mondo il numero sempre più elevato e critico dei rifugiati, anche se quanto sta avvenendo a Dadaab rimane nell’ombra per la maggior per i più. Allo stesso tempo, non registrando le persone che arrivano nel suo territorio, il governo di Nairobi non concede ai rifugiati alcun diritto e si rifiuta, di fatto, di occuparsi di loro. I migranti non possono costruire case e sono obbligati a stare nelle tende, persino coloro che sono al campo da più tempo. Solo pochi fortunati hanno potuto erigere delle capanne di fortuna, con legna e fronde.

Tuttavia, gli abitanti di Dadaab, in trent’anni di permanenza al campo, si sono organizzati allestendo scuole, mercati, chiese e cimiteri, riuscendo a ricreare, con tutti i limiti a cui sono costretti, una sorta di città con le infrastrutture fondamentali. Questa pseudo organizzazione ha portato alcuni a identificare Dadaab come stereotipo di agglomerato urbano futuro, in uno scenario pessimistico in cui l’umanità non è stata in grado di frenare il cambiamento climatico che ha contribuito ad accelerare. Queste città sorte dal nulla a causa dei fenomeni migratori, come il campo dei rifugiati di Dadaab, sono state definite informali.

Dadaab, Terra promessa o prigione

Negli ultimi trent’anni migliaia di persone hanno abbandonato la loro patria per fuggire dalla crudeltà della guerra e dall’inesorabile mutazione delle condizioni ambientali provocata dal cambiamento climatico. La loro “Terra Promessa” è rappresentata da una zona praticamente desertica dove, prima del loro arrivo, non c’era nulla. Qui a Dadaab centinaia di persone cercano una speranza e un futuro, ma sono accolte soltanto da un’immensa tendopoli divenuta ormai un formicaio sovraffollato.

Senza acqua, senza cibo, privi dei medicinali per curare le tante epidemie che si scatenano in un luogo dove l’igiene non esiste, la gente si ritrova, in realtà, in una prigione. Le persone non possono lasciare il campo, il Kenya non riconosce loro alcun diritto, non da loro la possibilità di rifarsi una vita, di trovare un lavoro o di studiare. Intervistati da Francesca Mannocchi nel corso di un reportage per il canale televisivo La Sette, i rifugiati si rifiutano di parlare del futuro, delle loro speranze e delle loro ambizioni perché per loro tutti questi concetti sono stati annullati. Per la gente del campo il domani è solo un altro giorno di sopravvivenza a Dadaab, e oltre c’è solo buio.

Il sogno che ha guidato la fuga dei migranti è finito, il risveglio alla realtà è stato un drammatico trapasso in un nuovo incubo, un inferno non meno desolante di quello da cui sono fuggiti. E intanto il resto del mondo è cieco e sordo al loro richiamo.♦


Illustrazione di Matteo Galasso