Un’esile ragnatela ciondola dal soffitto, cullata da un sottile alito di vento che entra dalla finestra dello studio. In basso, sul parquet appena scheggiato, seguo il profilo della mia ombra che si solleva e si abbassa affannosamente in un respiro pesante, carico di fatica: la vedo infilarsi tra le venature del legno e allungarsi sul pavimento fin quasi a contorcersi. Sposto lo sguardo con un po’ di sforzo e riesco a distinguere alcuni volumi accatastati tra i ripiani della libreria. Lì, tra quelle pagine intrise di ricordi, sottili steli fioriti si sottraggono all’azione del tempo.
Li aveva colti lui in quel prato dietro la casa, tanti anni prima: aveva scelto con cura i più profumati e me li aveva posti tra le mani chiedendomi di custodirli. Sapevo che quelle pagine avrebbero mantenuti intatti i petali di quelle margherite, sigillo di tante promesse mute, troppo effimere per essere pronunciate. Decisi che sarebbero rimasti lì, celati per anni, finché un giorno le sue dita, rugose e un po’ tremanti, avrebbero accarezzato ancora una volta quei fiori, e io avrei scorto, nei suoi occhi grigi ormai velati dalla vecchiaia, un amore rimasto immutato.
Invece ora, dietro le mie palpebre umide, quel che fummo lotta per riemergere alla memoria. Osservo il passato prendere forma, vedo le figure muoversi sul soffitto ma i contorni sono imprecisi, sfocati dalla nebbia che, lenta, mi cala sugli occhi, o forse sono lacrime che scivolano sulle guance e cadono a bagnare le assi di legno sotto di me. Vedo due sagome sdraiate in un prato tra l’erba alta: eravamo poco più che ragazzini a quel tempo.
Quel giorno indossavo una gonna rossa a fiori bianchi sopra il ginocchio; l’aria tiepida del primo pomeriggio curvava gli steli dei papaveri che si piegavano a pizzicare le mie gambe nude. Il nostro tempo trascorreva così: distesi in un campo guardavamo un punto fisso tra le nuvole in cielo, fino a quando l’intensa luce d’estate ci costringeva a stropicciarci gli occhi, ridendo. Allora i nostri corpi si conoscevano così poco: tra noi si frapponeva ancora un velo di pudore che vibrava, sottile, quando le sue dita si avvicinavano timide al mio viso e, con delicatezza, mi scostavano ciocche di capelli dal volto. In quel prato mi innamorai della sua gentilezza, imparai a conoscere la tenerezza della sua mano che si appoggiava sulla mia gamba, sempre sopra le pieghe della gonna, e solo quando – ridendo – gettavo la testa all’indietro, sentivo le sue dita un po’ impacciate avanzare a poco a poco.
Negli anni aveva superato il pudore dell’adolescenza e le sue mani ferme avevano imparato a disegnare le curve dei miei fianchi. Il suo tocco, dapprima leggero e quasi impercettibile, divenne sempre più confidente e deciso, capace di avvolgermi in un abbraccio sicuro.
Poi, un giorno, la sua mano smise di rispettare il mio corpo nel tentativo, sempre più accanito, di plasmare una nuova forma, ignaro della mia passione che si tramutava in dolore, indifferente al mio sorriso che scemava in smorfia. Eppure, nonostante tutto, mi ostinavo a credere che in quel tocco, scomposto e ormai violento, si nascondesse ancora la gentilezza di cui mi ero innamorata: la cercai dentro di lui, in ogni sua parola, in ogni suo gesto, provai e riprovai disperatamente a ritrovare l’uomo che amavo, invano. Allora iniziai a scavarmi dentro, a erodere dall’interno la mia anima offesa, incapace ormai di riconoscere quelle ombre scure impresse sui miei fianchi consumati che quell’amore tossico aveva inciso su di me.
Anche in questo momento, ora che la sua rabbia cieca ha aperto squarci profondi sul mio corpo, tra i vetri infranti della finestra dello studio, spero ancora di sentire le sue dita tra i miei capelli umidi di lacrime e di sangue; anche adesso che un lungo taglio lacera in due il tatuaggio sulla mia gamba sogno di vederlo tornare indietro, rientrare dalla porta e giacere qui, accanto a me.
Una sottile ragnatela pende dal soffitto, immobile nella luce che sfuma nel cielo terso del crepuscolo. In basso, sul parquet scheggiato, il contorno di un’ombra si solleva e si abbassa in un respiro ormai leggero, sempre più impercettibile, fino a fermarsi. Fuori, in un prato poco lontano, l’odore di fieno appena tagliato profuma l’aria al tramonto di un tardo pomeriggio di giugno. ♦︎
Illustrazione di Lara Milani