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Secondo un sondaggio del 2022 condotto da We are Social in collaborazione con Hootsuite, sono 4.70 miliardi gli utenti che fanno uso quotidiano di social media. Parliamo del 59% della popolazione globale. Nel 2018, quando scoppiò lo scandalo Cambridge Analytica, i numeri erano inferiori di circa il 30%. Da allora, l’incremento degli utenti del mondo digitale è stato esponenziale, anche a causa della pandemia.

Ma torniamo al 2018, quando si scoprì che i dati di 87 milioni di account Facebook erano stati raccolti senza consenso e utilizzati per scopi di propaganda politica. Il ruolo svolto da Cambridge Analytica nel 2016, nel contesto delle presidenziali statunitensi e del referendum britannico sulla Brexit, è noto. Tuttavia, un terzo episodio meno conosciuto risulta emblematico del potere che i social media possono esercitare sull’opinione pubblica, anche nel caso si tratti di fazioni ridotte o minoranze etniche. 

Parliamo delle elezioni del 2010 in Trinidad e Tobago. Sulle home page di Facebook dei potenziali elettori giovani cominciò a girare una campagna, denominata Do So e  presentata come un movimento giovanile indipendente. Il messaggio chiave era «Fa’ così”», ossia astieniti dal votare come forma di protesta politica. L’obiettivo reale della campagna era scoraggiare dal votare i giovani, in particolare quelli di origine africana orientati verso l’opposizione. I dati, raccolti senza pieno consenso o consapevolezza degli individui, furono utilizzati per costruire i profili psicografici degli elettori di Trinidad e Tobago, profili che permisero di mirare i messaggi della campagna Do So verso specifici segmenti della popolazione.

Abbiamo iniziato a interessarci di privacy quando l’abbiamo persa

Prima di Cambridge Analytica, l’attenzione alla privacy dei dati era relativamente limitata: la maggior parte delle aziende e applicazioni raccoglievano e utilizzavano dati personali senza un’adeguata trasparenza o consenso informato. Dopo lo scandalo, il cambiamento è stato significativo. Di molto è cresciuta la sensibilità pubblica verso la privacy dei dati e l’utilizzo illecito delle informazioni personali. Molti paesi hanno introdotto o aggiornato le proprie leggi in merito, esempio su tutti l’Unione Europea, che ha implementato il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) imponendo requisiti rigorosi per la raccolta, il trattamento e la conservazione degli stessi. Nonostante i notevoli sforzi intrapresi per migliorare la privacy e la sicurezza nel mondo digitale, però, la problematica emersa dallo scandalo di Cambridge Analytica persiste. I social media rimangono strumenti di significativa influenza dell’opinione degli utenti.

I social media utilizzano algoritmi sofisticati che personalizzano i contenuti degli utenti basandosi sulle loro interazioni precedenti. Se da un lato ciò può migliorare l’esperienza del fruitore, dall’altro può creare camere di risonanza dove questi viene esposto a opinioni e informazioni che rafforzano le sue credenze preesistenti, limitando la sua esposizione a prospettive diverse. Per di più, la stessa pubblicità online è ormai sofisticata nell’identificare e colpire specifici segmenti di utenza. Ciò può non solo influenzare le decisioni di acquisto, ma anche modellare opinioni e atteggiamenti su questioni più ampie.

Il digitale tra vitalità e omologazione

Il digitale ha una vitalità senza precedenti che si manifesta in una miriade di modi: dall’arte alle discussioni politiche, dalla musica ai trend di moda, ogni giorno nascono nuove tendenze che riescono a influenzare e ispirare milioni di persone. D’altra parte, però, esiste un rischio di omologazione a questi stessi contenuti virali, che diventano il fulcro dell’attenzione di tutti. I social media, con i loro algoritmi, tendono a promuovere contenuti che hanno già raggiunto una certa popolarità, creando una sorta di eco-camera in cui le stesse idee, immagini e suoni vengono ripetuti all’infinito. Questa omologazione porta a una riduzione della diversità e della complessità del discorso online, minacciando di soffocare voci meno udite e di marginalizzare contenuti originali che non si conformano alle tendenze dominanti.

Questo genere di contenuti rischia di essere polarizzante o estremo, facendo leva su reazioni emotive piuttosto che su argomentazioni razionali. I forum, i blog e i social network su cui gli utenti condividono le proprie opinioni, sono facilmente sfruttabili per campagne di manipolazione coordinate. Sono strumenti potenti che ormai modellano il nostro modo di pensare, agire e interagire. Questa influenza possiamo chiamarla ‘Infocrazia’, un termine coniato dal filosofo sudcoreano Byung-chul Han per definire una società soffocata dall’eccesso di informazioni. «I social media somigliano a una chiesa: il like è il loro amen. Lo sharing è la comunione. Il consumo è la salvezza», sostiene Han. Ormai la tecnologia digitale permea ogni aspetto della nostra vita quotidiana. I social media si sono affermati come strumenti cruciali per la comunicazione e l’interazione sociale. Tuttavia, oltre a essere piattaforme di collegamento, i social hanno assunto un ruolo meno benigno: quello di catalizzatori dell’odio, tendenza preoccupante per la coesione e il benessere sociale.

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Consapevolezza del digitale

Un contributo chiave di questo fenomeno è l’anonimato. La possibilità di nascondere o distorcere la propria identità reale fornisce un senso di impunità, incoraggiando espressioni di odio e aggressività che probabilmente sarebbero contenute in contesti faccia a faccia. L’anonimato riduce la responsabilità personale e può attenuare l’empatia nei confronti degli altri, dando luogo a un discorso più ostile e polarizzato. Byung-chul Han afferma: «Mentre pensiamo di essere liberi oggi siamo intrappolati in una caverna digitale». Abbiamo a disposizione una quantità infinita di informazioni, eppure riusciamo a coglierne sempre meno, ed è così che il nostro orizzonte si restringe fino a rinchiuderci in una caverna. Ed è in questa caverna che entrano in gioco le dinamiche di gruppo sui social media che facilitano la desensibilizzazione collettiva verso l’odio. Quando gruppi di individui si uniscono nell’esprimere disprezzo verso un bersaglio comune, il comportamento odioso può sembrare più normale o accettabile. Questo fenomeno è particolarmente pericoloso poiché può portare a un’escalation. 

Ritorniamo per un istante alla campagna Do so. Quello che ci testimonia è che per quanto piccola sia la comunità colpita digitalmente, la portata reale di queste dinamiche può essere di gran lunga maggiore. In ogni momento ci sono persone che leggono, commentano e condividono contenuti con l’intento di esprimere una libera opinione. Ma questa è veramente libera?

Per un utente consapevole

Forse sarebbe necessario costruire una coscienza collettiva che permetta di utilizzare il digitale come uno strumento per combattere l’odio e la discriminazione e non per fomentarli. Tutto questo ha a che fare con noi e con le nostre abitudini, quando solleviamo il dito e fermiamo lo scroll del feed, visualizziamo e, anche se involontariamente, diamo sostegno a quel contenuto come utenti. Nell’epoca dell’esplosione dell’intelligenza artificiale, questa tendenza del mondo digitale diventa più pericolosa che mai. Sarebbe forse necessario fermarsi per un istante e chiedersi, prima di diventare utenti di un determinato contenuto o prodotto, cosa questa scelta comporti. 

L’azione del singolo in quanto membro di una collettività più ampia, nell’ambito digitale assume un significato profondo e molteplice. Nel mondo digitale, l’individuo non è un utente isolato, ma parte di una rete che trascende confini geografici e culturali. Questa connessione globale offre al singolo opportunità uniche di influenzare e essere influenzato dalla collettività. Nel digitale, quando un singolo agisce – che sia attraverso la condivisione di un post, la partecipazione a una discussione online o la creazione di contenuti originali – contribuisce a plasmare il tessuto sociale e culturale collettivo. Ogni azione, grande o piccola, può avere un impatto ben oltre l’immediato, potendo influenzare le opinioni, i comportamenti e persino i valori degli altri membri della collettività. Prima ci renderemo conto che ogni volta che agiamo – nella realtà digitale – non siamo mai i soli ad agire, prima capiremo che lo sviluppo di una consapevolezza collettiva delle nostre azioni digitali è una necessità concreta. ♦︎


Moth è un collettivo di artisti nato a Torino nella primavera del 2023 ispirato alla poetica della falena. Attraverso la produzione artistica e l’organizzazione di eventi, Moth si pone l’intento di riportare l’arte e la bellezza a una dimensione quotidiana.