La sabbia era ancora umida e il paesaggio era il solito, ma ogni volta mi ingannava che avesse qualcosa di diverso.
Pochi altri passi avevano già calpestato la battigia. Appartenevano ai primi bagnanti che si muovevano in silenzio sotto le fila ordinate degli ombrelloni. Erano impegnati nei loro riti quotidiani. Spalmavano strati di crema solare, stendevano asciugamani sui lettini, si preparavano a fare ciò che facevano sempre: passare la giornata, aspettare che accadesse qualcosa.
Forse era solo colpa dell’estate se la vita si era ridotta a una lunga attesa. Nello stabilimento balneare, sembrava che tutti aspettassero solo che da mattino facesse sera, che il caldo si smorzasse: come se non restasse nient’altro. Anche io ero lì ad aspettare e sapevo che quella sarebbe stata un’altra giornata passata a spellarmi sotto il sole fino a che ne avevamo voglia, prima che decidessimo che fosse l’ora di tornare in bici a casa di Paolo, fare la doccia, cenare, fare un giro, rientrare tardi.
Anche quel mattino eravamo arrivati prestissimo. Verso le nove ero andata a camminare sugli scogli, i piedi scalzi e le infradito in mano. Mi ero appena seduta, quando squillò il telefono.
«Pronto?», dissi, pur sapendo già chi fosse.
«Allora?»
«Allora cosa?»
«Dai, hai capito. Non mi hai scritto niente. Come sta andando?»
Gli raccontai del giorno prima, del giro in barca e del bagno a mezzanotte, ma null’altro.
«Lo conosco questo tono. Sei felice, vero?»
«Può darsi».
«Lui com’è?»
Lo cercai sotto gli ombrelloni a righe. Visto dagli scogli, lo stabilimento balneare sembrava un modellino in miniatura. Paolo era dove l’avevo lasciato: seduto sulla sdraio, un libro aperto sulle gambe e l’orologio al polso. Sembrava in attesa, anche lui, come tutti gli altri.
Cercai le parole ma non le trovai e gli diedi una risposta banale. Avevo il costante timore che raccontare qualcosa avesse il potere di cambiarne il ricordo, scalfirlo o salvarlo per sempre. E non avevo ancora scelto le parole giuste.
Parlammo d’altro, mi raccontò di un esame che doveva dare e che stava preparando.
«Quindi ce l’hai tra tre giorni?»
«In realtà tra due».
«Aspetta, ma oggi non è venerdì?»
«Mi dispiace dirtelo», disse, «ma no».
Provai la stessa incredulità che mi prese a dieci anni durante l’ora di ricreazione, quando Letizia della 5^ B mi spiegò come nascevano i bambini.
Allora mi tolsi il telefono dall’orecchio e il display si illuminò. Comparve la foto del salva schermo (una t-shirt bianca con la scritta Everything is temporary) su cui svettavano, nei caratteri digitali bianchi, l’ora e la data: 9.42, sabato 3 luglio.
Sabato.
Fissai la parola per qualche secondo finché la voce in linea non cominciò a tossicchiare, forse ridere.
«Quindi, oggi è già sabato?», biascicai.
«Una giornata di solito dura solo ventiquattr’ore, a meno che tu non sia in uno di quei film con i loop temporali».
Ripensai alla valigia verde aperta ai piedi del letto, con dentro i vestiti appallottolati. Poi guardai le persone in spiaggia che si muovevano a rallentatore. Era già passato tutto quel tempo? Come poteva essere già sabato?
C’era stata un’unica altra persona nel corso di quell’anno che era riuscita a farmi dimenticare dove fossi e che avrebbe riso se glielo avessi raccontato. Avrebbe detto che gli davo troppa importanza. Amedeo non poteva essere più diverso di così da Paolo, ma mi aveva dato una scossa che non mi era ancora passata.
«Era da un po’ che non mi capitava», dissi.
«E allora di cosa hai paura?»
Non risposi. Mi venne in mente un’illustrazione che avevo visto in un vecchio giornale a casa di Paolo con due figure stilizzate che si tenevano per mano, uguali in tutto eccetto che nella forma della testa: una quadrata e l’altra circolare.
Cambiai argomento, dissi che faceva caldo e qualche altra sciocchezza. Ci eravamo già salutati quando lo sentii dire: «Marta, volevo chiederti…», ma non seppi cos’altro volesse chiedermi perché avevo già riagganciato. La sua voce era un richiamo troppo forte alla realtà, preferivo non sentirla e ritornare laggiù, in quello che sembrava davvero il migliore dei mondi possibili, fatto di certezze durature: il mare che si infrangeva a riva, il cielo di un azzurro immutabile, le mani di Paolo che si agganciavano alle mie nei momenti più inaspettati.
Ritornai all’ombrellone 31, seconda fila. Mi buttai sul lettino.
«Hai voglia di fare un bagno?», disse Paolo, chiudendo il libro.
«Non ancora, ma tu vai».
Insistette, mi disse che mi avrebbe aspettato. Ma io insistetti di più. Allora si arrese.
«Tu però rimettiti la crema che ti scotti».
Poche cose in quei giorni avevano senso. Quelle notti dormivamo poco, ma al mattino ci svegliavamo presto. Mi ritrovavo a recuperare il sonno perso in spiaggia, addormentandomi sotto il sole. Mentre lo guardavo allontanarsi verso riva provai a immaginare come sarebbe stato salutarsi l’indomani.
Andava avanti da un po’. Conoscevo benissimo la casa del mare di Paolo. Sapevo che lo sportello delle tazze era difettoso, che c’era un gradino in cui rischiavo di inciamparmi sempre, e che su una mensola c’erano le foto di lui da piccolo insieme ai suoi due fratelli. Sapevo anche che non voleva mai che andassi via.
Non mi ero scordata lo sguardo di una signora in coda al supermercato. Stavamo imbustando la spesa, io avevo in mano le buste dell’insalata. Paolo si era chinato e non so perché mi era venuto di dargli un bacio in cima alla testa, sui capelli biondi. Una signora era in coda nell’altra cassa ma mi ero accorta che ci stava guardando. Era durato una frazione di secondo: mi aveva sorriso e io, imbarazzata, avevo preso la busta della spesa più pesante ed ero uscita fuori.
Da quando avevo iniziato a frequentare quello stabilimento balneare non era cambiato niente: attorno a me c’erano sempre le stesse persone, sempre le stesse frasi. Mi stupivo ogni volta di come tutti fossero uguali a se stessi. Io invece non ero mai uguale alla volta prima, ma arrivavo con qualcosa di nuovo, di impercettibile e Paolo lo notava. A volte era solo un pensiero che mi aveva rattristato.
«Tu cambi come il vento» mi diceva sempre Paolo e aveva ragione, per questo l’immutabilità delle persone mi spaventava molto. Non sapevo come si facesse ad essere così. Forse capitava quando si diventava adulti. «In fondo, hai solo vent’anni». Anche Paolo era come loro, immutabile, antico come un panorama visto da un’altura. Diceva che era normale che cambiassi perché era la condizione naturale della giovinezza. Una sera mi aveva detto che aveva smesso di cambiare quando aveva visto morire suo padre. Che un giorno avrei smesso di cambiare anche io. Che sì, sarebbe successo. Tra me e lui c’erano cinque anni, abbastanza da permettergli di essere già nell’altro decennio. Paolo era consapevole di quale fosse il suo posto nel mondo, l’aveva trovato e forse l’aveva sempre saputo, che fosse nell’ombrellone 31 o in qualsiasi altro ambito della sua vita. Trattava ogni cosa con consuetudine, proprio come ritornare nella casa del mare ogni estate. Spesso mi ero ritrovata a pensare che non avesse mai vissuto qualcosa che l’avesse veramente scosso. Ma poi avevo capito che forse era solo che l’aveva voluto ammettere.
Adesso Paolo era oltre gli scogli, lo scorgevo a malapena mentre tirava bracciate lunghissime che sferzavano l’acqua. Attorno a me i rumori della spiaggia.
All’ombrellone 32 c’era la solita coppia di anziani con una ciurma di bambini vicini.
«Nonna! Nonno!», stavano urlando. I nonni si erano avvicinati e i bambini gli avevano mostrato i castelli di sabbia che avevano appena finito di costruire tra un lettino e l’altro. Silenzio. Dopo qualche complimento sui ghirigori disegnati con le conchiglie, i bambini avevano deciso che il lavoro di una mattinata poteva essere calpestato, i secchielli rovesciati e i gusci di nuovo buttati in mare. I bambini iniziarono a costruirne altri.
La signora al 33 stava giocando a briscola con l’amica, le carte appoggiate su una pila di giornali scandalistici.
«Oggi pioverà, l’hanno detto alla tv». Lo ripeteva sempre, anche se non era piovuto mai. Una mattina di qualche settimana prima mi aveva chiesto perché stessi leggendo una rivista di arredamento, se studiavo Architettura, di dov’ero. La piega che aveva preso la conversazione mi aveva fatto presto capire che la sua amica quel giorno non sarebbe venuta e doveva trovare qualcuno con cui intrattenersi al posto suo durante l’arco della giornata. Mi chiese dove fosse Paolo e le risposi che stava legando le bici. Poi mi domandò da quanto tempo stessimo insieme.
«Non stiamo insieme» le avevo risposto.
La sua reazione a quella risposta non fu difficile da interpretare. Ciò che avvenne nella sua testa fu simile a ciò che accade a un criceto quando la ruota si ferma e gli ci vogliono alcuni secondi prima di capire come farla ripartire. Poi mi aveva augurato buona giornata fingendo di aver molto da fare.
Mi resi conto solo qualche tempo dopo che la reazione di Paolo alle mie riserve non era stata molto diversa. Gli avevo cercato di spiegare che non mi era possibile definirmi perché sentivo di non avere più bordi. Mi sentivo come uno di quei disegni colorati con la polverina della punta delle matite che si facevano alle elementari. Ero sfumata e imprecisa, i miei colori uscivano fuori dai contorni e si mescolavano allo sfondo. Mi sembrava invece che tutti gli altri avessero bordi ben delimitati e anche Paolo avesse colori che lo riempivano rispettando i margini, senza sbavature.
All’ombrellone accanto al nostro, anche quella mattina, c’era la signora con il costume blu. L’avevo osservata a lungo, più degli altri ed era stata l’unica per cui avevo faticato a trovare dei contorni netti. Era come sempre da sola ed era già lì, sotto l’ombrellone, la sedia rivolta verso il mare, da prima che arrivassimo. A volte l’avevo sorpresa mentre mi fissava da sotto gli occhiali da sole pesanti. Forse si era accorta che osservavo il bicchiere di tè con ghiaccio e limone che teneva sempre in mano.
Anche adesso alcune goccioline di acqua stavano colando giù dai bordi sudati del bicchiere di vetro che reggeva con delicatezza, le unghie rosse su mani eleganti e inanellate. Se lo portò al petto e sollevò la cannuccia verso le labbra, un bocciolo richiuso su se stesso che si schiuse per tirare su una lunga sorsata.
Le suonò il telefono. Frugò nella borsa e tirò su un Nokia. Riconobbi nella suoneria un brano di Händel. Rispose alla chiamata. Parlò di qualcosa che riguardava un avvocato. Poi agganciò e finì il tè. Anche i cubetti di ghiaccio si erano sciolti e nel bicchiere si era adagiata sul fondo la fettina di limone. La vidi alzarsi e la seguii con lo sguardo fino al chiosco della spiaggia, che era poco distante. Il cameriere le servì dell’altro tè. Ma il bicchiere non scintillava.
«Per favore, può aggiungere ghiaccio e limone?», disse. «Così dura di più».
Fu accontentata e gli sorrise. Poi la vidi mentre percorreva la strada al contrario, il pareo che ondeggiava sotto i passi che reggevano il peso della sua stazza vigorosa.
Tornò a sedersi. Riprese a sorseggiare il suo tè come se non avesse mai finito l’altro, lo sguardo che si perdeva nel mare.
Seguii lo sguardo della signora con il costume blu e cercai Paolo tra le onde, senza trovarlo. Chissà dov’era, forse oltre le ultime boe.
Intanto, i signori del 32 si erano alzati. Lui era più lento di lei nei movimenti e aveva le ginocchia rugose. Per un attimo pensai a loro da giovani. Come doveva essere stato essere giovani assieme, poi essersi visti sfiorire. Essere lì, ancora. Mi chiesi se fosse bastato un po’ di ghiaccio e limone a far durare di più il gusto di quegli anni o se in ogni caso se ne sarebbe andato via, come ghiaccio sciolto e non sarebbe rimasto nulla.
I bambini erano ancora sotto l’ombrellone e mentre i due anziani si allontanavano nella sabbia che incominciava a scottare, le ciabatte ben indossate e un asciugamano attorno al collo, lei si era voltata di tanto in tanto per controllarli. Una volta raggiunte le docce, si erano fermati. Lei gli aveva allungato il braccio. Lui aveva aperto il getto d’acqua e mentre aveva iniziato a togliersi via la sabbia dai piedi, poi dalle cosce, dalla pancia molle, e dalle braccia, lei non aveva smesso di stringergli il polso. C’era qualcosa di sacro in quei gesti, che mi sembrò impossibile continuare a guardarli. Mi sembrava di invadere il loro segreto, che solo lei poteva custodire. Un po’ come gli innamorati ai concerti. Avevo sempre pensato che osservarli fosse una forma di voyerismo che mi avrebbe aiutata a capire se anche io amavo nel loro stesso modo. Nei concerti ti potevi mescolare alla gente. Ma nella spiaggia tutto era agli occhi di tutti, la carne era solo carne. Lui aveva chiuso il getto d’acqua e i due anziani erano tornati indietro.
«Mi è mancato condividere quel momento con qualcuno» mi aveva detto Amedeo qualche settimana prima. Era tardi e la città era vuota. Eravamo seduti sul pavimento della doccia di casa mia, difficile dire perché ci trovassimo lì. Era venuto a trovarmi per caso, come sempre, ed ero felice. Parlava di un concerto a cui era andato da solo. «Mi sarebbe piaciuto avere qualcuno accanto a me» disse, lo sguardo perso. «Solo qualcuno con cui prendersi a testate e cantare le canzoni a memoria». Io l’avevo ascoltato come sempre, domandandomi a chi stesse pensando. Non l’avrei mai saputo. Diceva che davo troppo peso alle sue parole, ma non potevo fare a meno di ascoltarle, perché gli volevo bene. Ogni notte con lui sembrava sempre l’ultima e per questo la vivevo con un’intensità fuori dal comune, volevo solo che durasse di più. Ma anche quella era finita troppo presto.
L’appartamento dei genitori di Paolo aveva una doccia in cui stavamo a malapena in due, ma ci arrangiavamo. Il rituale di quei giorni era arrivare a casa dal mare e lasciar scorrere l’acqua mentre la sabbia scivolava via dai nostri corpi e rimaneva per terra. Eravamo sfatti dal sole e dal vento e ci mettevamo a ridere per qualsiasi cosa. Presto ce ne dimenticavamo. La sera prima mentre appendevamo i costumi bagnati alle manopole d’acciaio che sporgevano dalle piastrelle, Paolo mi aveva detto che non voleva che andassi via.
Erano due segreti diversi quelli di Paolo e di Amedeo e io avrei voluto custodirli entrambi, ma avevo fallito in ogni caso. Non sapevo se fossero solo amicizie passeggere, ma solo che non dovevamo prometterci niente.
Mi sentivo un serpente, che mutava pelle a seconda della persona con cui stava, ero bravissima a cambiare. Non sapevo cosa sarei diventata, sapevo solo che per poter crescere dovevo liberarmi di quella vecchia.
Proprio in quel momento mi guardai la pancia, arroventata dal sole degli ultimi giorni. Mi stavo spellando e strati secchi si sollevavano come carta velina. Il sole era quasi nel punto più alto del cielo. Mi stiracchiai, e chiusi gli occhi, ascoltando il consueto brusio della spiaggia, gli schiamazzi dei bambini e le onde che si rompevano docili a riva. Feci per girarmi a pancia in giù e col dorso della mano sfiorai la pelle. Mi spaventai. Era diventata fredda e squamosa, come la pelle di un serpente. Mi misi a sedere di scatto, guardandomi attorno convinta che ci fosse qualche animale. Pensai che dovevo aver toccato qualcos’altro, che non potevo essere io. Ma poi guardai il mio corpo: ed ero proprio io. Al posto della pelle, ero ricoperta di squame. Erano verdi, cangianti, scivolose… Le gambe si stavano unendo… Le braccia, invece? Non avevo più braccia… Ero distesa sul lettino in spiaggia ma non ero più io… Un rettile disteso sul lettino… Non sembravo solo un serpente: ero diventata un serpente…
Sembrava un tuono, sembravano grida, sembrava…
Mi svegliai di soprassalto. Nella spiaggia non c’era più il sole. Il mare era diventato plumbeo e così il cielo. Qualche goccia di pioggia stava cominciando a cadere. Tutto era cambiato così velocemente che per un attimo fui convinta di non essere più nello stesso posto. Mi misi a sedere, questa volta per davvero. Si era alzato il vento e gli ombrelloni erano quasi tutti chiusi. La signora che giocava a briscola si stava rivestendo. «L’avevo detto che pioveva», continuava a ripetere all’amica. L’acqua si era alzata e nessuno più faceva il bagno in mare. Non vedevo più neanche Paolo. Lo cercai, ma non riuscii a scorgere nulla.
C’era trambusto nella battigia. Qualcuno era disteso per terra, alcune persone gli stavano attorno, in piedi, gesticolavano, parlavano a gran voce. Ma il vento spazzava le loro parole al largo e io non ne sentivo nessuna. Feci qualche passo e mi sporsi oltre la prima fila di ombrelloni: temevo di vedere il volto della persona che giaceva a terra ma mi sporsi lo stesso.
Mi sentii afferrare per il polso. Mi girai.
Era Paolo. «Eccoti» disse, «Andiamo via». Era pallido, i capelli fradici gli si erano attaccati alla fronte. Sul volto non restava nulla del colorito sano che gli avevano donato le ultime giornate di mare.
Ci stavamo per allontanare quando vidi il bagnino ritornare con una busta di ghiaccio in mano. Il muro di persone che attorniava il corpo si aprì quel tanto necessario per farmi intravedere la tempia dell’uomo disteso: un rivolo di sangue colava giù fitto e denso fino alla spalla e si stendeva sulla sabbia.
Stava iniziando a piovere, le gocce che cadevano decise, forse anche a grandinare. Avevo la schiena madida di sudore. Era freddo. Mi accorsi in quel momento che aveva smesso di fare caldo.
Paolo mi tirò a sé e mentre tornavamo indietro mi accorsi che l’unica ancora seduta sulla sua sedia era la signora con il costume blu. Si riparava sotto l’ombrellone, il bicchiere di tè era posato sul tavolino. Non si capiva se stesse fissando il mare o la scena che aveva davanti, ma ciò che accade in seguito successe molto velocemente.
La signora con il costume blu si alzò. Prese il bicchiere e ci mise una mano sopra. Lo capovolse e il liquido trapassò oltre le dita inanellate. Quando lo posò, in mano le erano rimasti solo i cubetti di ghiaccio che non si erano ancora sciolti. Mentre Paolo recuperava i vestiti che il vento aveva scaraventato alla rinfusa sulla sabbia, la vidi avvicinarsi al bagnino e al gruppo, che sotto la pioggia, si era fatto tutt’a un tratto silenzioso e immobile. Riuscii a vedere solo il bagnino voltarsi e lei allungare la mano, aprirla e mostrargli i cubetti di ghiaccio.
Io e Paolo ci allontanammo. In fondo, avevo ancora vent’anni. ♦︎
Illustrazione di Luca Vidali