Pozzanghere profonde come specchi sul mare. Una, due, tre, è inutile provare a contarle tutte, non riuscirai a vedere l’inizio della strada. Mia nonna dice che trenta, quarant’anni fa qui davanti era tutto un campo di grano. Lì in fondo mia mamma, quando aveva appena dodici anni, cadde gareggiando con gli altri bambini del quartiere. Mia mamma, l’unica femmina ad avere il coraggio di sfidare i maschi, più grandi e grossi di lei, vinse. Ma quello che convinse gli altri ad ammirarla e a considerarla invincibile non fu la sua velocità, o la sua incredibile forza di volontà, nonostante fosse la sfavorita. Quel sasso che le entrò nel ginocchio e per un po’ rimase lì, come una pietra preziosa. Fu quella la sua più grande vittoria.
L’acqua mi entrava nelle scarpe bianche di tela. Calzini inzuppati neanche fosse novembre, un freddo così travolgente e così poco reale che faticavo a crederci. Da quanto tempo non pioveva così? L’acqua usciva da ogni angolo, le automobili si facevano strada tra fiumiciattoli verdognoli e foglie secche ammassate ai lati. Noi, nascosti sotto i portici. Un profumo di pane appena sfornato e placintă cu varză, qualche mamma che ci chiamava a gran voce dalla finestra: vai a prendere del pane e un chilo di zucchero. Noi, troppo elettrizzati all’idea di passare un’intera giornata fuori casa, evitavamo a tutti i costi di dover salire e farci due, tre piani – ci arrangiavamo come potevamo. In otto a bere da una vecchia tazza blu, che la vicina del piano terra ci porgeva dalla sua finestra. Una fetta d’anguria fatta a pezzetti dalla nonna di qualcuno, ma non vi siete stufati di stare sempre in giro, con il caldo e con il freddo? Noi? Mai.
Così, gli sguardi al cielo, in mezzo alle gocce di pioggia che vagavano come cento, mille, centomila possibilità da cogliere al volo. Le mamme si inventavano i metodi più divertenti e meno tradizionali per lanciarci due monete e qualche banconota colorata per la spesa. Calzini improvvisati come borsellini, bottigliette di succhi di frutta che prendevano il volo, ma le più gettonate erano le scatolette di fiammiferi. E sentivi urlare più a sinistra, più a sinistra! Ecco! E noi tutti, con le braccia in aria, attenti che nulla finisse a impigliarsi tra le foglie, facevamo a gara a chi per primo riusciva a prenderle al volo. La testa sembrava girare, adagio ma costante, per il troppo fissare in alto. Era un gioco di squadra, da cui uscivamo tutti vincitori, e via in viaggio fino all’altro capo della strada, tenendo per mano i più piccoli e i più distratti, attenti alle automobili che passavano e all’acqua sporca delle pozzanghere.
Pane, quello buono di Ocna Mureș, un grammo di zucchero – no, un chilogrammo di zucchero. Altro? No, grazie, sono a posto così. La grande piovra di bambini in esplorazione nel piccolo negozietto alimentare, prossima volta prendiamo anche un po’ di caramelle alla fragola. Quelle all’ingrosso te le pesavano e le mettevano in sacchetti trasparenti, già a cinque anni sapevamo che così era più conveniente perché non c’era da pagare in più per la confezione. Speravamo tutti in qualche sorpresa, aiutavamo qualche nonna a scegliere un regalo per i nipoti. Meglio i wafer al cioccolato o alla vaniglia? Forse sarebbe arrivato qualche orsetto gommoso come premio. La vecchia che vendeva fiori sgualciti sotto i portici ci chiedeva di comprarle un pacchetto di Marlboro rosse, ecco i soldi, dividetevi pure il resto. Allora il resto provavano a dartelo in mentine o cicche, uno scambio poco equo secondo i nostri genitori. Ma gli unici a non lamentarsi eravamo noi.
Eravamo sempre insieme, perché insieme era più facile superare le nostre paure. L’unica volta che attraversai da sola la strada fino all’alimentare davanti a casa non andò esattamente come previsto. Mi ripetevo nella mente quello che dovevo comprare, perché la mia timidezza di sicuro mi avrebbe giocato un brutto scherzo. Una banconota stretta nel pugno sinistro, i miei occhi attenti a sinistra, poi a destra, poi ancora sinistra e a destra. Mi ero ricordata tutto, emozionata ero uscita dal negozio con il mio pane di Ocna Mureș a fette, ancora caldo, e un pacchetto di patatine che la mamma mi aveva concesso come premio.
Poi, il mio sguardo incrociò quello di un bambino che avrà avuto sì e no quattro anni, gli occhi color pece pieni di paura ed esitazione, e in una frazione di secondo mi ritrovai in mezzo alla strada, senza resto, senza patatine. Lui scappò in un batter d’occhio. Come dire alla mamma che non era colpa mia? Ne ero responsabile. Della spesa, del resto, di tutto quanto. Sentii un fuoco di rabbia e di vergogna invadermi a poco a poco, e per la prima volta mi chiesi: perché. Perché io, perché qui, perché così.
Me la ricordo così, come una nonna che mi tenne con sé per i primi sei anni della mia vita, insegnandomi a resistere, mostrandomi strade già battute, sogni ammaccati e, soprattutto, nessuna via di fuga. Ogni suo consiglio era legge, ogni sua carezza era ruvida, dura e inaspettata. Tanto da non sapere se abbassare la guardia e, finalmente, lasciarsi andare a una confessione o a un gesto di affetto, oppure restare vigile, sotto sotto un po’ disillusa già dalla nascita. Furono i pomeriggi con lei a rendermi così costante, coerente e convinta? Fu il suo pane, burro e sale a trasformarmi in quella che, molti anni dopo, qualcuno avrebbe definito cinica?
Nessun altro, nessuna gita al lago, nessun burro d’arachidi e marmellata, nessuna bambola dai capelli lunghi e colorati, nessuna lezione di danza o musica, nessuna fiaba sulle streghe, nessuna festa in maschera, nessun dieci in pagella, nessun primo giro in bici. Nessuno, niente, nessuno mi avrebbe insegnato a conoscere le persone meglio di lei. Non uno sforzo, non un’esitazione.
Nasciamo in un luogo e vorremmo tutti andarcene subito dopo, a cercare un senso, una strada. Mentre gli altri lottano per raggiungere il proprio sogno, noi un sogno lo dobbiamo prima trovare, poi inseguire. È così da anni. Che sia colpa del comunismo o del destino, che sia merito di chi non ha creduto in noi e ci ha voluto sempre isolare in un angolo.
Siamo plasmati per funzionare alla perfezione all’interno di un sistema fatto di sacrifici e sofferenza, non abbiamo affatto tempo per costruirci un nuovo ideale. Tutto quello che conosciamo sta dentro la nostra casa, nella nostra vita, nel nostro quartiere. In pochi sanno che è necessario usare tutte le proprie forze per distruggere il guscio. Chi ci ha provato, a fatica ne è uscito vivo. Chi ne è uscito vivo, come me, ha dovuto imparare a convivere con i propri fantasmi. Tenerli per mano. Nutrirli. Consolarli. ♦︎