Skip to main content

In concomitanza con l’uscita su Netflix de La meravigliosa storia di Henry Sugar e tre altri corti, Wes Anderson ha dato alle sale Asteroid City. Il lungometraggio – con una trama spolpata, un nugolo di attori ridotti quasi a sfavillante comparsa e un’esasperazione della sua ‘non estetica’ (ne abbiamo accennato nell’articolo riguardo il cortometraggio sopracitato) – continua il nuovo corso che il regista texano sembra aver avviato con il precedente The French Dispatch. Solo lo humor rimane inalterato: sua immutabile caratteristica che spunta quasi in ogni singola scena.

La trama

Un conduttore di un programma anni 50 presenta uno speciale televisivo sulla produzione di: Asteroid City, fantasiosa piece teatrale dell’altrettanto di fantasia drammaturgo Conrad Earp. La piece è ambientata durante gli anni Cinquanta ad Asteroid City, uno sperduto paesucolo degli Stati Uniti in cui, un nutrito numero di persone lì convenuto per la Giornata dell’Asteroide, viene tenuto segregato dall’esercito in seguito all’improvviso arrivo di un alieno che ha portato via con sé l’iconico asteroide schiantatosi lì nel lontano 3.007 a.C.

Fotogramma di Asteroid City © 2023 Wes Anderson/American Empirical Pictures/Indian Paintbrush/Studio Babelsberg
Fotogramma di Asteroid City © 2023 Wes Anderson/American Empirical Pictures/Indian Paintbrush/Studio Babelsberg

Dalla realtà in bianco e nero del programma televisivo si passa rapidamente al colore dell’opera teatrale, un colore assolutamente innaturale per un’assurda storia che si sviluppa tra la realtà, la fantasia dell’inesistente produzione della piece di Earp e la fantascienza della sua opera.

Asteroid City. Un focus

Wes Anderson sembra ormai aver deciso la strada da percorrere per i suoi futuri film (siano essi lungo o cortometraggi). Con Asteroid City abbiamo assistito al trionfo della forma e allo strapotere dell’apparenza sulla storia in sé, a uno scheletrico manichino ingigantito da strati e strati di vestiti.

Questo racconto è uno tra i più poveri nella sostanza della prolifica attività del cineasta di Huston. La sovrabbondanza di personaggi frammenta una narrazione già di per sé dai ritmi fin troppo blandi, tentando inutilmente di gonfiare l’esiguo corpo del racconto con un eccesso di presenze parlanti sullo schermo.

Fotogramma di Asteroid City © 2023 Wes Anderson/American Empirical Pictures/Indian Paintbrush/Studio Babelsberg
Fotogramma di Asteroid City © 2023 Wes Anderson/American Empirical Pictures/Indian Paintbrush/Studio Babelsberg

I numerosi personaggi di questa storia, infatti, hanno praticamente sempre qualcosa da dire ma parlano così poco – se si escludono tre o quattro di loro – da far apparire tutti i vari interpreti (comunque di spessore) poco più che delle semplici comparse, non solamente per l’esiguo quantitativo di battute ma per il modo quasi sempre anodino con cui parlano. A questo tipo di recitazione Wes Anderson non è nuovo ma, in Asteroid City, ha calcato pesantemente la mano. La classica assurdità di molti discorsi di questo film risulta presentata allo spettatore in modo eccessivo, perdendo quel po’ di forza che poteva avere.

Cosa rimane nel nuovo corso

Questa nuova via potrebbe un po’ destabilizzare la ‘vecchia guardia’ del cineasta texano, abituata a ben altri ritmi e della quale chi scrive si ritiene fedele sodale. Forse è anche per questo che la cosa che maggiormente ha brillato in questo suo ultimo film, più della ormai parossistica estetica (che dona comunque ancora alcune inquadrature degne di nota), è il sottile humor che tenacemente ‘resiste’ in questo nuovo modo di vedere il proprio cinema. Uno humor molto spesso caustico ma che assume toni simpaticamente malinconici perché pronunciato da personaggi quasi sempre sconfitti in partenza: dei veri, autentici weirds.

Fotogramma di Asteroid City © 2023 Wes Anderson/American Empirical Pictures/Indian Paintbrush/Studio Babelsberg
Fotogramma di Asteroid City © 2023 Wes Anderson/American Empirical Pictures/Indian Paintbrush/Studio Babelsberg

Wes Anderson con Asteroid City porta all’estremo il motto: «Chi mi ama mi segua». Bisogna amarlo e molto, infatti, per riuscire ad accettare questo nuovo modo di mostrare il cinema che ha in testa Anderson; il sottoscritto lo ama molto e continuerà tenacemente a seguirlo.

Se fra i lettori di NoSignal vi fosse qualche neofita o estraneo alla filmografia del cineasta di Huston, consiglierei di cominciare da qualche sua opera meno ‘eccessiva’, anche anteriore al suo penultimo lungometraggio. Si potranno apprezzare, così, quelle che prima erano sfumature, anche accentuate, rispetto alle odierne e poderose pennellate.