1977. In una cittadina canadese, cinque persone della comunità di nativi Atikamekw vengono trovate morte. I corpi riportano le tracce di brutali violenze ma nessuno, malgrado le richieste dei familiari delle vittime, si degna di aprire un’indagine. Cinquant’anni dopo, parenti e amici degli scomparsi, ancora alla ricerca di un colpevole, rimettono in scena quei dolorosi avvenimenti assieme alla regista Chloé Leriche. Il risultato è Atikamekw Suns, un lungometraggio tra fiction e documentario, meritatamente in concorso al 41° Torino Film Festival.
L’atmosfera si permea di un’aura memoriale e cerimoniale, dove gli attori prendono parte ad una sorta di Corpus Domini che li coinvolge in prima persona. Il cinema riconfluisce in una dimensione esoterica, facendosi operazione alchemica e ritualistica, dal valore spurgante e terapeutico per i suoi soggetti. Un evento marginale e periferico, e così personale per gl’interpreti chiamati in causa, diventa portatore di una più ampia storia americana di razzismo e disgregazione. Il fatto che non venga mai mostrato il volto delle vittime è emblematico. L’impossibilità dello spettatore nel dare un viso agli uccisi, rende i morti delle entità archetipiche, vittime con la ‘V’ maiuscola. Chiunque può prendere parte al dolore degli Atikamekw e partecipare alla loro liturgia.
Una processione
Non c’è la volontà di creare una profondità narrativa, così come non c’è interesse nel dare ai personaggi uno spessore psicologico. Tutto si riduce a ‘figura’. Ogni elemento, ogni corpo è meticolosamente ingabbiato all’interno del quadro. Così come i movimenti dei ‘personaggi’ sono minuziosamente predisposti e i dialoghi smaccatamente e artificiosamente recitati, didascalizzati. Non si sta assistendo ad una narrativizzazione ma, nel senso più religioso del termine, a una processione. Un corteo di cui è stato provato più volte ogni singolo passaggio. C’è un’idea di ritratto corale in questo. Da una parte, emerge l’esigenza di dare voce a una comunità, dall’altra s’intravede l’ambizione di trasfigurare il discorso su un piano-altro.
Tutto il film è girato con un obiettivo grandangolare, che conferisce un’evidente sfericità all’immagine. Questa globularità circoscrive e delimita lo spazio degli indiani, confinandoli in una riserva ulteriore. Ciò materializza efficacemente il senso di isolamento e ghettizzazione a cui sono costretti. In una scena, i piccoli Atikamekw si fingono morti per cercare di vedere dove sono andate le vittime decedute. Qui emerge in maniera evidente l’immagine di un popolo su cui grava lo spettro della morte. In generale, per tutto il film si avverte la conturbante consapevolezza di stare guardando gli ultimi rimasugli di una popolazione quasi del tutto estinta. Gli ultimi esemplari di una specie che, per Charles Darwin, costituirebbe un ‘ceppo debole’, destinato forse a scomparire. L’assenza di un colpevole per questa ‘piccola’ tragedia invita a rintracciarne le ragioni ben oltre il perimetro del paesino canadese dove si svolge la storia. ♦︎