Nel gennaio del 1980 uscì, edito da Feltrinelli, Altri libertini, esordio del giovane Pier Vittorio Tondelli. Un privato cittadino del centro Italia, sentendosi offeso dai contenuti e dal linguaggio adottato nel testo, si rivolse al procuratore generale de L’Aquila, che ne dispose il sequestro a venti giorni dalla pubblicazione. Le stesse ragioni che anni prima avrebbero mosso la censura ecclesiastica vennero sollevate da un lettore, che denunciò per oscenità e oltraggio alla pubblica morale quelle duecento pagine, in quanto lesive del pudore, della famiglia e di Dio. L’indice dei libri proibiti non esisteva più da anni, ma secoli di condizionamenti avevano fatto sì che una parte dell’opinione pubblica, avendone interiorizzati i principi, perseguisse spontaneamente gli stessi intenti. Tondelli ribadì l’importanza della ricerca linguistica, che stava alla base del suo testo e che costituiva le fondamenta sociologiche di un linguaggio volutamente basso, mimetico di quello parlato da ragazzi perduti, emarginati, poveri tossici e sottoproletari di provincia. Persone e vita che esistevano, disperazioni ed euforie di un’intera generazione che Tondelli decise di non tenere sullo sfondo. Venticinque anni prima, nonostante l’articolo 21 della nostra Costituzione tutelasse una libertà d’espressione ancora lontana dall’essere pienamente acquisita, Pier Paolo Pasolini aveva affrontato il tema della prostituzione maschile in Ragazzi di vita. Denunciato per oscenità e per il carattere pornografico del libro, fu processato e assolto dalla magistratura di Milano, anche grazie all’intervento di Carlo Bo, critico, letterato e docente universitario, che aveva sostenuto il libro contenesse valori religiosi, in quanto invitava alla pietà verso i poveri e i diseredati. In Italia all’epoca ce la si poteva cavare solo così. Tondelli al processo fu assolto con formula piena, senza che ci si dovesse più appellare a Carlo Bo, allo Spirito Santo o a chi per lui, e il suo romanzo di racconti, che ha cambiato la letteratura italiana allargandone le maglie e la lingua, tornò in libreria nel 1981. A causa del suo Sodomie in corpo 11 (1988), Aldo Busi visse una vicenda simile nel 1990. A Trento subì un processo per oscenità che fu addirittura trasmesso da Rai 3 in Un giorno in pretura. Per l’occasione lo scrittore, al quale bisogna riconoscere un certo senso dello spettacolo, sfoggiò uno smoking Trussardi, un narciso giallissimo e scarpe di vernice. Anche Busi venne assolto. Ancora oggi, leggendo a mio padre, quasi coetaneo di Tondelli, qualche brano da Altri libertini, mi sono sentito dire: «Cos’è ’sta porcheria piena di bestemmie? L’avrai mica scritta tu?». Non stupisce quindi che all’epoca questo controverso caso letterario abbia generato uno shock relativamente proporzionato. Non possiamo dire lo stesso per molti – troppi – altri casi di censura, che si sono verificati in tempi più o meno recenti in giro per il mondo, ma soprattutto negli Stati Uniti, a discapito di opere letterarie che non hanno contenuti così scandalosi. Vediamone alcuni tra i più ridicoli e tra i più significativi.
Benché Il diario di Anna Frank sia uno dei resoconti più noti e coinvolgenti scritti da chi ha vissuto in prima persona le persecuzioni degli ebrei a opera dei nazisti, nel 1983 in Alabama fu bandito dalle scuole perché troppo deprimente. Mi domando cosa si aspettassero. La storia di una ragazzina che insieme alla sua famiglia gioca a nascondino? Una sinossi un po’ riduttiva, direi. Il libro fu censurato anche in una scuola della Virginia e, nel 2013, in una del Michigan, ma perché al suo interno erano stati individuati addirittura contenuti sessuali.
Nel 2006 un gruppo di genitori ha chiesto e ottenuto che Winnie the Pooh fosse rimosso dalle biblioteche scolastiche del Kansas, più meno per gli stessi motivi per cui Alice nel paese delle meraviglie era stato bandito in Cina settantacinque anni prima: gli animali parlanti sarebbero un abominio contro la religione. Speriamo nessuno di loro legga mai Esopo.
Cappuccetto rosso, che nella versione di Perrault portava alla nonna una schiacciata e del burro, in quella dei fratelli Grimm porta una focaccia e, ahimè, una bottiglia di vino. L’immagine di una nonna etilista parve poco edificante e, nel 1987, fu motivo di censura per la fiaba in alcune scuole della California.
Oltre a Cappuccetto rosso, altri classici per bambini, tra i quali La bella addormentata nel bosco e La bella e la bestia, sono stati recentemente tolti dal catalogo di una biblioteca di Barcellona, perché, se non introdotti con le dovute premesse, avrebbero potuto veicolare stereotipi sessisti e tossici. Fiabe con radici nella tradizione popolare di un’Europa medioevale hanno, come ovvio, determinate caratteristiche, che oggi percepiamo come limiti. Ma, in questo caso, la censura ha agito perché la psiche infantile non venisse traviata da scarpette di cristallo e principi azzurri (maschi bianchi, etero, cisgender e privilegiati, che salvano ragazze, sovente minorenni, per farne le loro mogli-trofeo) o per esimere genitori e insegnanti dalla fastidiosa incombenza di dover ragionare con i bambini su quegli aspetti che eventualmente ritenessero critici?
Prima di tornare negli Stati Uniti, restiamo ancora per un attimo in Europa. La casa editrice olandese Blossom Books, specializzata in testi per la fascia di età compresa tra i 15 e i 25 anni, nel marzo 2021 ha presentato al pubblico una nuova edizione della Divina Commedia, nella quale aveva censurato i versi del canto XXVIII dell’Inferno relativi a Maometto, omettendo il nome del profeta. La scelta era stata giustificata con la volontà di non «offendere inutilmente» i lettori musulmani (ci sono forse casi in cui sarebbe utile?), precisando che comunque la modifica non inficerebbe la comprensione del testo. E su quest’ultima affermazione non trovereste nessun dantista concorde.
Alcuni intellettuali di religione islamica hanno criticato quella posizione di eccessiva prudenza, facendo presente che le moderne traduzioni di Dante in arabo, per non escludere il lettore da una parte del testo, riportano integralmente i versi e poi con note a piè di pagina informano in merito al contesto storico e letterario in cui inserirlo. Che uno scrittore cristiano del Medioevo abbia opinioni “medievali” su Maometto non è un concetto particolarmente difficile da chiarire e alla Blossom non sarebbe costato più di un paio di righe. Ma ora riattraversiamo l’Atlantico e parliamo di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Il romanzo narra proprio di libri messi al bando e arsi ed è stato censurato in alcuni stati degli USA solo perché la Bibbia compare tra i testi bruciati. Un’immagine reputata tremendamente offensiva, benché sia collocata in un mondo distopico, che, per definizione, è quello in cui un autore dà corpo ai propri timori e non certo alle proprie speranze o intenzioni.
Ancora in tema di roghi: nel 2001, in un paesino del New Mexico, i fedeli della Christ Community Church hanno organizzato un bel falò purificatore, in cui sono state date alle fiamme copie de Il signore degli anelli, definito antireligioso e satanico, malgrado Tolkien fosse cattolico e, nella sua intenzione, l’opera fosse un’emanazione della sua fede. Nella stessa occasione furono gettati nel fuoco anche i libri della saga di Harry Potter. Per la serie di romanzi scritti da J.K. Rowling negli anni successivi non è andata molto meglio: nel 2007 una scuola del Massachusetts li proibì perché spingerebbero i bambini a dedicarsi all’occulto e a praticare arti legate al satanismo. Nel 2019 in un istituto cattolico di Nashville, nel Tennessee, la saga subì la stessa sorte: un reverendo, previa consultazione di esorcisti statunitensi e di alcuni esponenti del Vaticano (da apprezzare qui il suo zelo), giunse alla conclusione che gli incantesimi e le fatture contenute nel testo sarebbero reali e potrebbero far comparire presenze maligne.
Che dire?! Abracadabra e bibidi bobidi bù… con la censura fai quel che vuoi tu… È involontariamente comico che negli Stati Uniti, secondo alcuni, lo dimonio che esce da quelle sozze pagine, pregne di vili sortilegi et immonda fattucchieria, possa esser visto come un pericolo più concreto delle sparatorie nelle scuole. Anzi, a voler essere obiettivi, a modo loro, pedagoghi e censori si sono preoccupati anche di quello, tanto che, nel 2008, in un distretto nel New Hampshire, venne bandita dalle biblioteche scolastiche la saga di Hunger games, perché inciterebbe i minori a uccidere altri minori. Sicuramente il modo migliore per affrontare il problema. Hanno proprio centrato il punto.
Nella top ten dei libri più censurati negli Stati Uniti nel 2014 compare Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini, per molteplici ragioni giudicato non adatto a un pubblico di minorenni. Tra le varie accuse, quella di essere portavoce di una chiara quanto indubbia propaganda religiosa pro Islam ed essere a favore del terrorismo, senonché, con quelle medesime parole, secondo altri, che ne avevano richiesto la censura, Hosseini promuoveva l’islamofobia.
Il buio oltre la siepe di Harper Lee uscì nel 1960, vinse il Pulitzer per la narrativa nel ’61 e nel ’62 ne venne realizzata una trasposizione cinematografica con Gregory Peck nei panni dell’avvocato Atticus Finch. Negli Stati Uniti è stato uno dei libri più amati, ma oggi è tra i più censurati. Nel romanzo, ambientato nell’Alabama degli anni ’30, l’avvocato Finch cerca di scagionare un bracciante nero, Tom Robinson, ingiustamente accusato di violenza sessuale nei confronti di una ragazza bianca. Nonostante sia stato considerato una sorta di manifesto contro la discriminazione razziale, uno dei pezzi di letteratura internazionale che più ha sottolineato il valore del rispetto per la cultura e la libertà delle persone nere, l’argomento razzismo continua a essere dolente persino quando è al centro di un’opera che lo condanna. Anche nelle scuole in cui il testo non è stato proibito tout court, sovente si è richiesto ai genitori di firmare un consenso, perché i figli potessero accedere a un libro, che ormai era stato tradotto in decine di lingue e circolava in milioni di copie. I motivi della censura e delle critiche mosse al romanzo sono stati prevalentemente due. Il primo riguarda il fatto che tutta la vicenda sarebbe costruita secondo schemi e prospettive di supremazia bianca, in quanto sia l’autrice, che l’avvocato Finch sono bianchi. E il ruolo dell’uomo bianco, buono e condiscendente, che si prodiga con generosità per salvare un nero sembrerebbe effettivamente riproporre una visione paternalista. Ammettiamo pure che l’opera possa essere letta anche attraverso questa lente, però, per coerenza storica, quanti avvocati neri avrebbero potuto esserci nell’Alabama degli Anni ’30? La seconda ragione di censura è il ricorrere del termine nigger. Ma un libro che si propone di descrivere un contesto razzista come potrebbe non contenere al suo interno anche parole razziste?
Gli epiteti denigratori, a differenza degli insulti generici, i quali colpiscono esclusivamente il singolo, oltre a descrivere un individuo, lo catalogano, lo additano come degno di disprezzo in quanto facente parte di un gruppo e, in questo modo, legittimano comportamenti discriminatori nei suoi confronti e nei confronti di tutta una categoria. Il potenziale denigratorio di un epiteto varia nel corso del tempo, a volte anche col verificarsi di fenomeni di riappropriazione, attraverso i quali chi è discriminato può trasformare il termine offensivo, con cui viene bollato, in una parola che ne ribalti la sua portata negativa e denunci con orgoglio l’appartenenza a un gruppo. Tutti noi siamo responsabili delle nostre azioni, come delle nostre parole e di come queste cambino la società. I silenzi, con cui eventualmente accogliessimo gli usi offensivi di altri, si trasformano facilmente in legittimazione e rischiano di renderci conniventi. Ma così come un epiteto non è offensivo in contesti citazionali, laddove è solo un modo per riferire parole altrui e le virgolette ne sigillano il potenziale denigratorio, dovrebbe essere ammissibile anche in contesti fittizi come romanzi, film e serie tv, quando impiegato in funzione mimetica, per riprodurre fedelmente l’ambiente sociale e il periodo storico. In merito al romanzo di Harper Lee, invece, quel termine, in alcuni casi, venne cancellato o sostituito con perifrasi, in altri determinò l’esclusione del volume da molte biblioteche scolastiche degli Stati Uniti. In virtù di un principio secondo il quale è meglio spiegare che nascondere, testi come questo sono preziosi, oltre che per il valore estetico-letterario, proprio per i loro aspetti critici. In un aula scolastica offrono spunti per affrontare argomenti complessi e mettere al centro della discussione quelle parole che esistono e vanno condannate nell’uso corrente, ma, se non prese in esame, diventano così pesanti da trasformare in motivo di turbamento perfino termini innocui, disgraziatamente omofoni, omografi o anche solo somiglianti.
A questo proposito mi è capitato di vedere su YouTube un video in cui una ragazza, seguendo dagli Stati Uniti una delle scorse edizioni dell’Eurovision, durante l’esibizione di un gruppo si copre la bocca con la mano in un tardivo gesto di autocensura, dopo aver letto ad alta voce il nome della nazione che quegli artisti rappresentano: il Montenegro. La ragazza che, temo non stesse scherzando (è piuttosto nota la scarsa conoscenza geografica di molti che vivono dalle parti dello Zio Sam), si mostra confusa e piuttosto indignata, tanto da chiedersi chi avesse scelto un nome simile per un paese, quando fosse stato fondato e se ci fosse a monte un’intenzione discriminatoria nei confronti delle persone nere. «Però non mi sembrano neri», aggiunge perplessa, prima di passare all’esibizione successiva. Meglio non domandarsi cosa direbbe allora dello storico amaro omonimo del paese di cui sopra o di un nostro noto cocktail classico, il cui nome non è dovuto al suo ingrediente principale, bensì al conte fiorentino che lo creò negli Anni ’20, o, peggio ancora, delle varianti di questo drink (sbagliato, bianco, Mexican, rosato…), che ci auguriamo nessuno abbia mai la sciagurata idea di offrirle. Ma, mentre quel video lascia forse uno spiraglio anche per una lettura ironica o comunque non ha ricadute concrete, non così la vicenda che ha coinvolto Crayola, un’azienda statunitense che produce giocattoli, matite colorate, pennarelli e pastelli, che si è trovata a dover rispondere ai tweet in cui genitori e insegnati inferociti minacciavano di boicottarli, non acquistando più i loro prodotti di cancelleria. Il motivo? Per aiutare i bambini a imparare le lingue, la ditta è solita scrivere sui suoi pastelli i nomi dei colori in inglese, spagnolo e francese. Purtroppo per loro, però, la parola spagnola che indica il colore nero è «negro». Nei tweet di risposta, l’azienda, che, non avendo alcuna responsabilità né etica, né linguistica, non avrebbe mai immaginato di doversi difendere, è stata costretta a una cauta remissività e si è addirittura detta grata per l’opportunità di spiegare quanto – almeno credevo – avrebbe dovuto già essere ovvio per tutti. Questo episodio testimonia come venire offesi e sentirsi offesi siano due cose diverse e come sentirsi offesi non voglia dire avere automaticamente ragione. Ciononostante, nel luglio del 2017 è stata lanciata su change.org una petizione per far rimuovere il termine spagnolo dai pastelli. È incredibile che si sia creato un clima culturale in cui c’è chi, ritenendolo normale o credendo persino di fare un servizio alla comunità, avanza certe pretese senza sentirsi un idiota, a fronte di una millantata difficoltà nel chiarire a un bambino l’uso di una parola in una lingua, sia che si tratti di un genitore o, peggio ancora, di un insegnante, il cui compito sarebbe proprio quello di educare. Del ruolo dei docenti e degli effetti dalla censura nelle scuole e nelle università parleremo nel prossimo episodio. ♦︎
Foto di Michael Dziedzic