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Poteva anche essere che se lo fosse inventato. Lo stava ancora decidendo, quando mise i piedi giù dal letto. «Cazzo». Qualsiasi cosa fosse, era reale. 

Inforcò gli occhiali sul comodino. Era riuscita a mettere a fuoco, in ordine sparso, tre cose: piedi, sangue (doveva decisamente essere il suo), vetri di bottiglia. Aveva la bocca impastata e la testa molle. La festa era finita da un pezzo ma lo stereo era ancora acceso.

Quelle ultime giornate non erano mai iniziate. Si svegliava al tramonto e arrivava subito il buio. Aspettava la festa del sabato e trascorreva le altre notti sul sito web delle scatole nere degli aerei. Era come lavarsi i denti prima di dormire, ormai lo faceva senza pensarci. Erano tutti lì: link rossi su sfondo nero. Li cliccava, uno a uno, e si gustava i trenta secondi di conversazione tra i piloti e la torre di controllo, gli ultimi prima dello schianto. Alcuni imprecavano, altri urlavano, uno era riuscito a dire «Ma, I love you». Altri erano solo spariti nel nulla. Spesso li riascoltava, stop and rewind, come aspettandosi che quel gesto potesse cambiare il finale. C’era qualcosa di rassicurante nel sapere che non sarebbe accaduto. Conosceva le loro ultime parole a memoria, come le rime in una poesia. 

Si sentiva ridicola e probabilmente lo era. Ma finché nessuno l’avesse scoperta poteva sopportarlo. Era l’inizio di marzo e la casa si era ridotta alla distanza dal letto al water, a volte dal letto alla porta d’ingresso. Le uniche parole le scambiava con il rider che arrivava sotto la pioggia. «Codice 21», gli diceva, senza neanche salutare. Non rispondeva ai messaggi. Dava la colpa alla scritta «Produci, consuma, crepa» sul muro fuori dall’università. Leggeva l’oroscopo. 

Quando chiudeva gli occhi vedeva sempre le solite inquadrature: la testa di suo padre dietro l’obiettivo della vecchia Canon, il mare blu sullo sfondo; la testa di Amedeo, l’orecchino a cerchio dietro la Pentax, il camino spento. Finiva per rigirarsi nel letto, senza addormentarsi. 

Ma la festa del sabato arrivava sempre, come era arrivata anche la sera prima. Allora le toccava darsi una sistemata, sfilarsi la maglia slargata, scuotere via le briciole dalle lenzuola, depilarsi e affrontare lo specchio schizzato del bagno. Vi erano riflesse le braccia lisce, la camicia sui jeans, un filo di rossetto sulle labbra. Gli invitati sarebbero arrivati a momenti e lei intanto era lì, a controllare di essere credibile. Le piaceva raccontarsi bugie, avevano più religione delle verità, e riconosceva di sapersele raccontare molto bene. Si sbirciava e si allontanava, poi si riavvicinava finché lo specchio, sazio, non finiva per inghiottire tutte quelle immagini e le restituiva una ragazza composta: lei. 

Succedeva sempre che più si guardava, più sentiva la mancanza dell’altra. Chissà dov’era andata. Non lo sapeva, eppure era esistita, aveva le prove. Bastava scartabellare nel cassetto per trovarle: tre rettangoli di carta spessa, gli angoli appuntiti che le tagliavano i pollici. Si era ripetuta che erano solo fotografie, che non volevano dire niente, eppure le aveva guardate e riguardate. «Non ti muovere», le aveva detto Amedeo, e poi aveva scattato. Era la stessa frase che le diceva suo padre quando era bambina. Le diceva anche che dipende sempre tutto da chi guarda. Per Amedeo, invece, no: «Eccoti, questa sei tu».

Il citofono aveva emesso un suono giusto. Mentre apriva la porta di casa e i primi invitati entravano, si era chiesta tra sé e sé se avesse mai più rincontrato la ragazza impressa su quelle foto. Poi aveva bevuto un sorso di vino da un bicchiere e l’aveva lasciato su una mensola, accanto a una pianta di basilico.

Adesso la luce del mattino spaccava in due metà il soggiorno e quel bicchiere era ancora lì, ancora pieno, e la fissava, mentre lei gli passava davanti zoppicando. Le chiazze di vino versato della sera prima si mescolavano al sangue fresco che si incollava alle piastrelle bianche, lasciando una scia rossa. Nessuno aveva spento lo stereo che suonava una canzone che, a quanto dicevano le parole, parlava di una certa Virginia e di un ragazzo finito in un riformatorio. Poche ore prima c’era stato un grande trambusto, adesso la casa era di nuovo vuota. Il soggiorno era un cimitero di oggetti tristi: bicchieri vuoti, tovaglioli piegati, filtri per le sigarette ma niente tabacco e cartine per rollare, felpe dimenticate. Oggetti che erano stati usati, con cui qualcuno si era divertito, prima di averli abbandonati qua e là.

Raggiunse lo Scottex sul tavolo e tornò indietro, lasciandosi cadere sul divano verde lime, da cui volarono giù alcuni palloncini viola. Strappò un pezzo di carta e fece per tamponarsi i piedi. Li guardò entrambi, prima il destro. Ma non riuscì nemmeno a sfiorarli. Lo smalto sulle unghie era brillantinato, la pelle, negli squarci, carne viva. Le schegge di vetro gliela infilzavano come spilli nella polpa di una fragola. 

Di solito, la domenica era il giorno più bello, perché dopo la festa del sabato si godeva quello stato di nitida assenza che la notte passata le aveva lasciato addosso. Erano le conseguenze del mescolarsi agli altri, le facevano sembrare tutto più lontano: gli ultimi esami per l’università non erano poi i più difficili, il litigio con quella sua amica era stata una scaramuccia da poco, e anche quella frase, «Non voglio vederti più», che Amedeo aveva pronunciato qualche mese prima, faceva meno male. 

Ma adesso, mentre osservava gli squarci rossi e violenti con aristocratico distacco, come se non fosse sua la pelle che si era strappata, come se non fosse suo il sangue versato, si era accorta che non poteva fingere di non sentire nulla. Il dolore le pulsava dentro, vivo, e doveva essere proprio suo e di nessun altro. Ammettere di sentirlo le fece venire voglia di piangere. 

Allora per un attimo le ritornò in mente quella voce. L’aveva sentita poco prima di svegliarsi. Forse si era svegliata proprio perché l’aveva sentita. Era qualcuno che la chiamava, pronunciava il suo nome. Sembrava provenisse da fuori, ma poteva essere anche da dentro, dal soggiorno o dall’altra camera da letto o da un punto imprecisato dietro la sua testa, dentro il muro che divideva la sua stanza dal pianerottolo delle scale. Abbassò lo stereo e affinò l’udito cercando di riprodurre la voce dentro di sé. Forse era tutta una questione di quanta immaginazione un luogo potesse contenere.

Dentro, tutto taceva. Fuori, nel silenzio della domenica, riecheggiava la solitaria voce elettronica dei monopattini («noleggio avviato, attenzione cavalletto abbassato»). Poi, il silenzio. Forse sì, forse se l’era inventata. 

Allungò un braccio sulla mensola e prese quel bicchiere, l’unico rimasto pieno. Ne trangugiò un sorso anche se non ne aveva voglia: voleva solo svuotarlo. Adesso era come tutti gli altri. 

Mentre tentava di alzarsi si domandò cosa avrebbe pensato Amedeo se avesse potuto vederla in quel momento.

Era bizzarro che anche adesso che non si parlavano si sentisse osservata da lui, come se le avesse imprestato il suo sguardo e non se lo fosse ripreso indietro. Se avesse potuto associarlo a una parola e regalargliela per sempre avrebbe scelto «retorica», e sapeva che per lui sarebbe stato un dispetto. Ma che gli piacesse o no aveva qualcosa di molto retorico e indefinito, che gli aveva permesso di attrarre a lui, prima di lei, molte altre ragazze che avevano cercato di capire il suo mistero. Sembrava che arrivasse sempre da avventure indicibili, come un esploratore di mondi lontanissimi, e lei voleva sentirsele raccontare tutte. «Perché lo fai? Non me lo merito», le aveva detto una volta, e lei l’aveva capito solo dopo che no, non se lo meritava. 

Eppure aveva deciso di indossare le frasi che lui pronunciava come un vestito di seta che non nascondeva nulla all’immaginazione: «Dai dignità a tutte le parole che ti vengono dette», «Sei molto dolce, sei fragile», «Se stai con qualcuno solo per l’apparenza sei una fessa», «Tu sai ascoltare», «Fai i capricci, sei melodrammatica». Stare con lui l’aveva fatta sentire visibile, soprattutto a se stessa, e per questo gli era grata. Ma ora che Amedeo non c’era più, si era trovata a domandarsi se la versione di sé che era stata con lui coincidesse davvero con quella reale. Aveva detto a un suo amico che lui non era stato un amore, ma un’ossessione e, quando ripensava a quei giorni lunghi trascorsi assieme, si sentiva una stupida perché messi tutti vicini non potevano che essere più di dieci, ma sparsi in tre mesi erano sembrati molti di più. Si rivedeva lì, sul divano del soggiorno con lui, a parlare dei suoi genitori: lei gli raccontava di quanto fossero diversi, ma che in qualche modo si fossero proprio trovati. «Sì, ma si sono anche persi», le aveva risposto lui. 

Ora che era tutto finito, pur non essendo mai iniziato, le sembrava di aver vissuto in un tempo sospeso e di aver parlato un linguaggio non verbale ma cinematografico, quasi che i loro scambi di battute coincidessero a uno scambio di sguardi, in un continuo campo e controcampo.

L’ultima volta che l’aveva sentito, la voce del ricevitore elettronico l’aveva fatto sembrare un doppiatore. Lei teneva il telefono premuto contro l’orecchio destro e, mentre gli parlava, osservava le sue gambe nei pantaloni arancioni ripercorrere la stessa traiettoria. Disegnavano un cerchio invisibile sulla linea delle piastrelle esagonali, proprio nel punto della stanza in cui, qualche tempo prima, aveva vomitato dopo una di quelle feste.

La maggior parte degli invitati non li conosceva, ma li faceva entrare come se li vedesse tutti i giorni. C’era chi arrivava da solo, chi in coppia, chi in gruppo. La salutavano con frasi di circostanza, le dicevano, «che bell’appartamento», «che fortuna, due camere e due bagni», «come mai vivi da sola in tutto questo spazio?», finché la casa non iniziava a riempirsi così tanto che non ci stavano più, e la gente entrava senza presentarsi. Anche la rampa di scale all’ingresso veniva occupata: ragazzi e ragazze che parlavano e fumavano standosene appollaiati al mancorrente come uccelli su un ramo. Da quando viveva in quella casa era sempre accaduto tutto lì, tra il pianerottolo e le scale. Le più eclatanti litigate e riconciliazioni con il suo ex, l’incontro dei suoi genitori dopo un decennio, la sensazione nuova di dare un bacio a uno sconosciuto che non avrebbe visto mai più. Ma quel luogo era anche un po’ di Amedeo. Chiudeva gli occhi e lo rivedeva: lui che saliva le scale, le andava incontro, gli occhiali appannati; lui che scendeva le scale, un pacchetto sottobraccio ancora incartato, il giorno dopo Natale. Mentre lo guardava andare via, si era spesso chiesta se alla fine quel regalo lo avesse mai aperto, anche se temeva che l’avesse abbandonato su una mensola impolverata, o sotto il letto, costretto ad ascoltare i suoi amplessi con altre ragazze. Lei cercava di non pensarci, e lo rivedeva lì, mentre se ne andava senza voltarsi.

Adesso quel luogo era diventato teatro di nuove storie, di quegli invitati sconosciuti che il sabato sera le andavano ovunque, sparsi per la casa, schiacciati sul divano, in piedi attorno ai muri del salotto e vicino al tavolo della cucina. Schiamazzi, paillettes, vino versato, musica brutta, coriandoli – chi li aveva tirati, poi? -, gomiti tatuati, sigarette accese. Ridevano e allora rideva anche lei, ma senza un vero motivo. Lei era in mezzo a loro, e aveva bisogno di sentirsi dentro a qualcosa. Gli inviti li faceva un suo amico che le aveva detto di conoscere «le persone che contano».

Alcuni le chiedevano se potevano fermarsi a dormire, altri non glielo chiedevano e se li trovava comunque stesi su un materasso in salotto, magari con qualcuno abbracciato. Ormai sapeva che non esisteva maleducazione in certi contesti. Le piaceva osservarli. La divertiva anche. Si sedeva sul lato del top della cucina e li ascoltava. 

Il momento migliore era quando la notte finiva. Ancora in piedi, con l’emicrania e la pressione bassa, andava in soggiorno per prendere dell’acqua e ciò che le si parava davanti erano le spoglie di un campo di battaglia. Molti erano andati via nel corso della notte, alcuni erano rimasti. I fortunati che si erano conquistati l’altra camera da letto erano impegnati in amplessi rumorosi, mentre altri superstiti si erano arrangiati nel salotto. Alcuni stavano sul divano e giacevano vestiti di tutto punto nelle pose più improbabili, le braccia fiacche, i volti esanimi, le bocche sfatte. Lei gli passava accanto in punta di piedi. Erano come morti. 

Sarebbe voluta andare dal rettore per fargli vedere come suo figlio – futuro validissimo magistrato – dormiva rannicchiato su un lato del divano, la testa penzoloni e le tasche della giacca che gli esplodevano di bustine d’erba. Lei se ne sgattaiolava in camera sua, l’unica piazzaforte su cui aveva il primato ed entrava nel suo letto cauta, dove c’era sempre qualcuno che l’aspettava. 

Era stato così anche la sera prima. Gliel’avevano presentato. Si ricordava di aver pensato che avesse un nome bello e un cognome altrettanto bello ma non si ricordava quali fossero. Si erano dati un bacio nel cesso. Era abbastanza fatta da non aver sentito niente e per questo aveva deciso di farsene dare un altro in balcone mentre si fumavano uno spinello spruzzato di metadone. Era davvero triste sapere cosa volesse dire baciare qualcuno di cui si è innamorati e sentirsi sull’orlo di entrargli dentro, e poi baciare qualcuno per cui non si provava niente. Si era rovesciata il gin tonic sulla camicetta quindi si era fatta accompagnare in camera con la scusa giusta per farsela togliere. Non poteva non piacerle. Era bello, intelligente, giocava a pallanuoto e scriveva i dialoghi di un podcast. Ma poi si era spogliata e aveva continuato a non sentire niente, e non era colpa né del gin tonic, né del fumo, né del metadone. 

Le capitava sempre, ormai, di sentirsi così. Quella mattina, il ragazzo della sera prima se n’era andato via presto, dopo averle portato la colazione che lei non aveva mangiato. Le aveva chiesto cosa avrebbe fatto durante la settimana, che se avesse avuto voglia potevano vedersi una sera, la portava nello studio dove registravano il podcast. Lei aveva ripensato alle sue notti sul sito delle scatole nere degli aerei, e si era resa conto di non saperci rinunciare. 

Voleva sentirli schiantarsi, doveva sentirli morire. In fondo, si era schiantata anche lei ma il suo dramma era che era ancora lì. Non era finita contro una montagna come i piloti del volo 182 della Pacific Southwest Airlines, ma contro qualcosa di ancora più solido, che l’aveva disintegrata: la verità. L’aveva colpita che Amedeo la sapesse sopportare così bene, mentre lei cercava di evitarla sempre. Lui gliel’aveva detta fin dall’inizio, «Io voglio te, ma voglio anche le altre persone», ma lei aveva sempre fatto finta di non capirla. Si vergognava della propria dilagante ingenuità. Le bastava stare con lui, quando poteva, anche se lui amava definirsi un vagabondo emotivo. Si era davvero sentita invidiosa di lui, della sua indifferenza, e avrebbe voluto assomigliargli, almeno un po’. Ripensava a quando si erano scambiati gli orecchini, e lei aveva indossato i suoi. Si era guardata allo specchio e aveva pensato che le stessero bene. Ma non bastava indossare quelli per diventare come lui. Accorgersene l’aveva fatta sentire troppo vuota, o forse troppo piena, certamente chiusa nel suo limite. Avrebbe davvero desiderato essere libera, ripagarlo con la libertà che lui le lasciava. Ma di nascosto mentre dormiva gli aveva preso la macchina fotografica, aveva visto le foto che aveva fatto alle altre ragazze che gli orbitavano attorno. Si era sentita tradita, più che da lui da se stessa. Si era stupita della leggerezza con cui se n’era andato quel giorno di dicembre: «Non fare drammi», le aveva solo detto. E lei era rimasta immobile, in un fermo-immagine, sull’uscio della porta. Aveva deciso che non l’avrebbe varcata mai più.

Controcampo
Controcampo. Un racconto di Rebecca De Vecchi

Anche adesso era rimasta immobile, le succedeva sempre quando non sapeva cosa fare. Era stesa sul divano, i piedi che avevano iniziato a ingiallirsi. Era difficile decidere cosa fosse vero e cosa inventato. Ritornava a quella frase, che gli aveva detto di getto, come se le pesasse tenersela dentro: «Riesco a immaginarci, noi due, a Roma, sai?» Aveva detto bene, era sempre stata solo tutta immaginazione. Ma ciò che l’aveva spinta a pronunciare quelle parole non l’aveva inventato. Anche le fantasie erano così vicine alla realtà. Intanto, qualche goccia di sangue cadeva ancora, puntellando il rivestimento verde lime di macchie marroni circolari. 

In fondo, dava quelle feste con la speranza che lui comparisse alla porta nella confusione generale, andava all’università cercandolo in tutti i corridoi, camminava per strada e si fermava davanti alla vetrina del fotografo tentando di incrociare il suo sguardo. 

Lui l’aveva fatta sentire un’altra, e adesso che quella non c’era più, era ritornata a essere solo se stessa. Ogni tanto, mentre sistemava la libreria, si sorprendeva a canticchiare, e le mancava che qualcuno lo sapesse. Lui non l’aveva saputo mai: «Perché davanti a me non canti?» 

Ma in quel momento, sospesa tra la visione del sangue e un senso di torpore, la sentì di nuovo. 

«Olga!»

Questa volta non aveva dubbi, si trattava proprio di una voce, una voce maschile. Proveniva da giù, da in fondo alle scale, all’ingresso. Sentì una scarica di adrenalina invaderle il petto. Si affrettò a rispondere. Provò a parlare, ma dalla gola, come improvvisamente serrata, non uscì alcun suono.

Si tirò su, si mise a sedere. Provò a poggiare i piedi sul pavimento, come per alzarsi, ma una fitta tremenda la invase. I piedi, ormai, li muoveva a stento, duri e purulenti, sotto il peso dei numerosi tagli. Capì di non avere altra scelta: se voleva camminare doveva togliersi le schegge.

La prima fu la più difficile: più indugiava con le dita attorno al corpo estraneo, più rischiava di conficcarselo in profondità. Capì che doveva essere svelta nel movimento. Contò fino a tre, chiuse gli occhi, premette, tirò. Il primo pezzo di vetro le cadde in mano. La parte che le era entrata sotto pelle era ricoperta di uno strato rosso scuro. Al suo posto, era rimasto un piccolo buco. 

Avrebbe voluto gridargli che stava arrivando ma non aveva voce e allora si affrettò, doveva togliersi anche le altre.

Iniziò, una per una, a premere e tirare. E le schegge uscirono, lasciando tanti piccoli buchi. Si domandava, intanto, chi poteva essere. Ripensò alla voce: calda, piacevole, familiare. Era come se l’avesse già sentita. Le ricordava le due persone più simili e sovrapponibili che avesse mai conosciuto: suo padre e Amedeo. 

Iniziò a scendere le scale, appoggiando i piedi uno davanti all’altro, cauta. Ormai si era abituata a pensarsi in controcampo, a sentirsi già vista, e già restituita. Ma mentre scendeva, un passo dopo l’altro, andando incontro a una voce che non sapeva nemmeno se fosse esistita per davvero, si sentì pervadere dalla verità: era sola. Si rese conto che a guardarla non c’era nessuno eccetto lei stessa, nuda davanti al suo sguardo. 

Per un attimo trattenne il respiro. Poi aprì la porta. ♦︎


Illustrazione di Anna Toschi

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