L’IA come corsa alla cieca.
Per molto tempo ho pensato che lo sviluppo sfrenato e cieco delle tecnologie fosse un dato negativo della modernità. L’idea stessa della possibilità di creare un qualcosa che avesse le nostre capacità o peggio, che le superasse, mi provocava una forte tensione. Se la tecnologia che ora noi usiamo come strumento o aiuto, anche nel quotidiano, diventasse poi talmente autonoma da sfuggire al nostro controllo?
Che cosa potremmo fare, una volta arrivati a quel limite? Ci sarà forse modo di tornare indietro, di rimediare, di porre confini a questi simulatori neuronali, agenti nella realtà, umanoidi[1]? Ed ancora, se non è possibile inserire emozioni all’interno della tecnologia, che funziona per codici e sequenze numeriche, qualora dovessero riuscire a superare le nostre capacità cosa gli impedirebbe di distruggerci?
Seguendo un corso sull’IA (intelligenza artificiale[2]) queste domande si erano ampliate a dismisura; se è vero che un robot funziona con codici è anche vero che quei codici sono in grado, se programmati a farlo, di auto-imparare ed auto-migliorarsi; e l’uomo non programma fino a che punto riesca a migliorare. Inoltre possiamo noi accorgerci di stare interagendo con un sistema artificiale, in altre parole quanto ne siamo consapevoli[3]? E poi, come cambia la società con l’inserimento di sistemi ad IA?
Senza contare il grandissimo dilemma etico che sottostà a tutta la disciplina. Partendo da: ‘l’IA può essere etica’ e se sì, ‘cosa è etico e cosa dovrebbe seguire l’IA per esserlo’, finendo per ‘se una macchina ad IA sbaglia e causa danni, chi deve essere ritenuto responsabile, l’uomo che l’ha progettata oppure la macchina?’.
Tutte domande che non hanno, nonostante lo studio di specialisti ed ingegneri, ancora risposta; sono state istituiti patti di uso dell’IA e programmi vietati; senza però porre limiti alla conquista artificiale, senza definirla o delimitarla perché questo avrebbe significato un restringere la ricerca stessa (de-limitare: porre limiti) e impedito possibili scoperte.
Un ambito, quello dell’IA, sterminato e pieno di questioni aperte. Sembra che la ricerca sia fine a sé: ricerco, trovo qualcosa e subito provo a migliorarla e renderla più efficiente; quasi la scienza non avesse limiti, quasi l’uomo potesse creare tutto ciò che vuole senza subirne poi le conseguenze.
Una vera e propria corsa verso l’ignoto, una corsa alla cieca.
Una nuova prospettiva sulle tecnologie IA.
Ma, se è vero che l’IA rappresenta tutti questi dilemmi e problematiche; è anche vero che si pone un’ulteriore questione: quando negli uomini si inseriscono parti meccaniche, l’uomo rimane uomo o diventa qualcos’altro?
Immagine esemplificativa di questa domanda è un film, molto conosciuto, di Robin Williams: L’uomo bicentenario.
Robin, attore protagonista, nasce robot e nel corso del film va a sostituire pezzo per pezzo le parti meccaniche con le parti organiche umane; finendo per diventare in tutto e per tutto un essere umano, compresi i sentimenti.
Un film commovente ed illuminante, che mostra il valore della vita e delle emozioni.
E se in questo esempio è il robot a diventare umano, anche l’uomo può diventare macchina?
A questa domanda, sicuramente provocante, trova risposta un affascinante e ancor troppo poco noto Manifesto Cyborg, di Donna Haraway, pubblicato nel 1985. In questo manifesto, in cui l’obiettivo è mostrare che la categoria di ‘differenza’ nasce da un sistema di pensiero asimmetrico che porta un gruppo a prevalere sull’altro, Donna auspica l’avvento dei cyborg: Un essere asessuato e totalmente sganciato dal proprio sostrato corporeo, capace di esercitare, rimandare o inibire qualsiasi funzione biologica a prescindere dalla propria condizione o dal proprio sesso. Questo grazie alla sempre più completa integrazione con la macchina. La trasformazione dell’umanità in un insieme di ‘esseri post-biologici’ consentirà, per la Haraway, a ciascun soggetto di ridefinire e reinventare sé stesso in un totale e pieno esercizio del proprio volere[4].
Ora, cosa c’entra questo manifesto con il problema dell’IA e della sostituzione macchina-uomo?
Ho trovato in questa idea di trasformazione dell’uomo in qualcosa di più giusto ed egualitario, una nuova prospettiva verso il grande dilemma dell’IA.
L’unione nella tecnologia.
L’IA è sì capace di spingersi troppo oltre e di non sapere dove andare, ma è anche capace di dare a tutti le stesse possibilità: Internet, ad esempio, si rivela strumento utile a chiunque lo abbia e, tralasciando l’algoritmo di preferenze e pubblicità, permette ad ognuno di poter avere risultati di ricerca immediati. Così come un traduttore automatico di Google, permette di rendere ogni lingua comprensibile, avvicinando culture e persone.
Se quindi è vero che l’IA è una corsa alla cieca, è anche vero che l’evoluzione tecnologica ci ha portato grandi vantaggi ed è riuscita a mettere in comunicazione parti tra loro sconosciute. La Haraway, con l’auspicarsi l’avvento dei cyborg, ci ha rivelato così una grande verità: la comprensione olistica dell’uomo è la chiave per superare le differenze, o meglio, per comprenderle.
Comprendere le differenze tra gli uomini, le diverse visioni della realtà senza farci guidare da emozioni irrazionali (esseri post-biologici), potrebbe aiutarci a dare nuove risposte all’insieme di domande che riguardano l’IA, a scegliere fin dove andare e a porre limiti e soluzioni prima che il problema si presenti come insormontabile.
Come disse un insormontabile Dostoevskij: “Ci vuole qualcosa di più dell’intelligenza per agire in modo intelligente”.
[1] La pervasività dell’IA è ancora poco nota, soprattutto ai non specialisti; pensiamo per esempio all’ambito militare (https://nosignalmagazine.it/la-vera-maschera-della-guerra/), in cui si stanno creando sempre più armi autonome in grado di decidere la traiettoria e colpire autonomamente; all’ambito della mobilità, con guida automatica e sistemi di gestione di ferrovie. All’Al machine e deep learning, agli algoritmi associativi e sistemi di profilazione sui nostri interessi come Spotify o Netflix. Finendo con i simulatori di realtà, internet e molto, molto altro.
[2] Da una sintesi del corso universitario Unibo di Teorie e Sistemi dell’Intelligenza Artificiale. IA, termine nato solo nel 1956 su impostazione cognitiva (mente : cervello = software : hardware), identificata come tutti quei sistemi autonomi (hardware e software) in grado di svolgere attività intelligenti autonomamente.
[3] Domanda centrale anche nel famoso Touring Test, dove è il non riconoscimento dell’interazione con un’IA che definisce la riuscita del test. L’uomo e la macchina sono allo stesso livello, l’uomo pensa di star comunicando con una persona quando invece dall’altro lato vi è un’IA.
[4] Nulla di più arduo che amarsi, G. Pinelli, 2021, p. 167