La serie Dahmer, uscita su Netflix lo scorso 21 settembre, racconta la storia di Jeffrey Dahmer, il serial killerconosciuto anche come “The Milwaukee Cannibal” o “The Milwaukee Monster” che fu responsabile di diciassette omicidi tra il 1978 e il 1991 in Ohio. Dahmer fu arrestato e condannato a 15 ergastoli non solo per omicidio ma anche per stupro, necrofilia, cannibalismo, squartamento, atti osceni e adescamento di minori. Il cannibalismo in quest’ultimo periodo è un tema che diverse produzioni hanno deciso di affrontare come anche il nuovo “Bones and all” di Luca Guadagnino. Questa serie però è tratta da fatti realmente accaduti e se viene vista ricordandoselo non può che essere definita spaventosa come la realtà da cui prende spunto.
Alla radice di tutto sembra esserci una precoce necrofilia (in senso lato, dal greco νεκρός “morto” e ϕιλία “amore”), partendo dall’ossessivo interesse per la dissezione degli animali dall’età di sei anni. Sicuramente i disturbi di cui soffriva erano molti ed è stata addirittura citata la splancnofilia, l’insieme dei disturbi psicosessuali caratterizzati dal fatto che chi ne è affetto deve, per ottenere eccitamento o soddisfazione sessuale, compiere atti anomali o perversi. Il tutto unito o forse conseguenza di una situazione familiare complessa con una madre depressa che lo abbandona, un padre che gli sta vicino senza conoscerlo, il rifiuto da parte di qualunque possibile amico: una solitudine intensa e continua. La serie non nasconde nessuno di questi aspetti, anzi, cerca di “rappresentarli” facendo un passo indietro nell’infanzia e nell’adolescenza di Dahmer, interpretato dallo straordinario Evan Peters, cercando così di sviscerare le “cause”.
È vero, una serie del genere vuole cercare di analizzare i perché ma questo non può, non deve sfociare nell’idolatria. Sul web sono nate addirittura delle fanpage per Dahmer il che è assurdo. Se dovessimo creare delle fanpage sarebbero per Peters che ha fatto uno studio intenso per dimostrarsi impeccabile, di certo non per Dahmer che rimane un killer pluriomicida che mangiava le sue vittime. Saper scindere il personaggio dall’attore è una regola generale fondamentale, a maggior ragione in questi casi. L’episodio più forte è sicuramente il sesto su Tony Hughes, storia che per un attimo ci fa quasi sperare in un lieto fine che inevitabilmente non si concretizza.
L’atmosfera è sin dalla prima puntata inquietante e cupa; entriamo in questo mondo, o meglio sulla fine di questo mondo, fatto di una violenza perversa. Rende tutto più angosciante la lentezza dei gesti e delle azioni, ogni movimento di Dahmer appare insensato e allo stesso tempo pericoloso. Uno degli elementi principali, sin dalla seconda puntata in cui è stata inserita anche la registrazione originale di una telefonata, è il ritratto che viene fatto della polizia. Un’istituzione che sembra perdere efficienza, che accetta e crede a spiegazioni stravaganti, che si limita a fare domande di circostanza bloccata da barriere di discriminazioni che all’epoca non erano rare. È forse questa una delle parti più tristi: l’incapacità di vedere oltre, di fare un solo piccolo passo in più per poter salvare giovani vittime.
A proposito di vittime, Rita Isbell, sorella di Errol Lindsey (vittima diciannovenne), ha espresso il proprio dissenso nei confronti di questa produzione. Infatti ha rilasciato delle dichiarazioni su Insider sottolineando quanto sia «triste che stiano semplicemente facendo soldi con questa tragedia.» Ha inoltre aggiunto che Netflix non avrebbe mai contattato le famiglie delle vittime prima dell’uscita, ritenendo che «avrebbe dovuto chiederci se ci dispiacesse o come ci sentissimo sapendo che lo stavano facendo. Non mi hanno chiesto nulla. L’hanno fatto e basta.» A questo punto la domanda da porsi sembra essere un’altra: questi “adattamenti televisivi” di vere tragedie vengono fatti solo “per amor del vero”, per dare al pubblico modelli negativi da cui distanziarsi o per intrattenere questo pubblico volgendo a proprio vantaggio eventi che più che accaduti realmente sembrano essere stati ideati da fantasiosi sceneggiatori? Probabilmente il confine è labile e anche la differenza può apparire minima e sterile ma forse una riflessione in questi termini non ci farebbe male. Dahmer ovviamente non è né il primo né l’ultimo di progetti di questo tipo ma davanti a tanta brutalità la domanda sembra valere più delle altre volte.