Il 2024 è iniziato nel peggiore dei modi per l’Ecuador a causa dell’esplosione di violenza provocata dalle bande di narcotrafficanti che ha precipitato il Paese nel terrore. La scintilla che ha scatenato l’incendio è stata l’evasione da un carcere di massima sicurezza del capo del principale cartello della droga ecuadoriano, Adolfo Macìas, detto Fito. La fuga di uno dei più potenti e pericolosi boss del Paese ha indotto il giovane presidente Noboa ad adottare misure drastiche e introdurre lo stato di emergenza per 60 giorni. Questo ha implicato l’imposizione del coprifuoco, la chiusura di numerose strade, degli aeroporti e dei porti, e una raffica di perquisizioni. Una situazione che ha messo con le spalle al muro il latitante e lo ha probabilmente spinto a incitare i suoi scagnozzi affinché mettessero il Paese sotto ferro e fuoco.
L’infelice scelta del giovane neopresidente, eletto lo scorso 10 ottobre, di usare il pugno duro non è servita a risolvere il problema, ma al contrario lo ha ingigantito. Le numerose bande di narcotrafficanti che infestano l’Ecuador hanno avviato una guerriglia nelle principali città del Paese, in particolare Quito e Guayaquil, sede, quest’ultima, dei Los Choneros, il cartello che fa capo a Fito. I malviventi hanno iniziato a sparare e lanciare bombe in luoghi affollati, nei pressi di parchi o scuole, ferendo molte persone e uccidendone almeno 19 secondo le stime dei primi giorni; la gente è stata ammanettata casualmente per strada e in alcune zone si sono visti persino criminali armati di lanciarazzi nei pressi dei semafori, pronti a colpire le auto che fossero passate a tiro.
Lo studio televisivo della TC, importante ente giornalistico ecuadoriano, è stato assaltato durante una diretta e i giornalisti sono stati costretti a mettersi a terra, minacciati da uomini armati e incappucciati. Uno dei conduttori è stato obbligato a diramare un messaggio nel quale si intimava alla polizia di non intervenire per non mettere a repentaglio la vita dei sequestrati. La medesima sorte è toccata alle forze dell’ordine, in quanto anche alcuni poliziotti sono stati rapiti da gruppi armati, mentre il caos si è diffuso nelle carceri, dove i prigionieri si sono ribellati alle guardie e hanno tentato di prendere il controllo. Il governo ha ordinato la chiusura di negozi e uffici e la paura si è diffusa in tutto il Paese. L’intervento dell’esercito ha permesso di liberare lo studio televisivo assediato senza spargimenti di sangue e di riportare l’ordine nelle carceri, ma la situazione in Ecuador non è tutt’oggi tornata alla normalità.
Tutto questo in uno Stato considerato fino a pochi anni fa uno dei più tranquilli e sicuri del Sud America. E, infatti, con l’esplodere delle violenze a inizio anno, una domanda è stata centrale nei discorsi di chiunque abbia trattato la notizia: come si è potuto arrivare a una situazione simile? Come si è potuto passare da un tasso di omicidi di circa il 6% annuo ogni 5.000 abitanti nel 2017 a uno del 40% nel 2023?
Il narcotraffico in Ecuador
Pur essendo geograficamente collocato in mezzo a due giganti della produzione e vendita di cocaina quali Colombia e Perù, l’Ecuador, viste anche le sue dimensioni ridotte, fino agli anni 2000 non è mai stato coinvolto nel grande mercato del narcotraffico. Il Paese, retto principalmente dal commercio delle banane, era considerato un semplice territorio di transito, una mera via di comunicazione obbligata fra colombiani e peruviani. La situazione ha però subito una svolta con il nuovo millennio e una serie di eventi, alcuni dei quali casuali e paradossali. Innanzitutto, i due scomodi vicini, Colombia e Perú, sono diventati nel corso del tempo meno appetibili per i narcotrafficanti.
Lo Stato colombiano ha intrapreso una intensa lotta contro il traffico di droga a partire dalla fine degli anni Novanta, ottenendo anche l’appoggio degli Stati Uniti sia a livello finanziario che militare. Le coste colombiane sono state poste sotto costante presidio ed è oggi sconveniente fare transitare i carichi di droga lungo questa via, mentre il resto del territorio è stato ispezionato a fondo per scovare e chiudere i centri di coltivazione e stoccaggio della cocaina. Questo ha spinto numerosi produttori colombiani a trasferirsi in Ecuador e a spostare lì la loro attività. A ciò si è aggiunta la guerra interna che ha visto il governo di Bogotà contrapporsi ai gruppi ribelli delle Farc, le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, anche questi coinvolti nel narcotraffico. Molti esponenti delle Farc sono fuggiti nel vicino Ecuador e questo esodo è aumentato con il raggiungimento degli accordi del 2016 fra alcuni gruppi delle Farc e il governo colombiano. Ed è così che l’Ecuador, da mero territorio di transito, si è ritrovato a essere centro di stoccaggio e produzione della cocaina.
La medesima perdita di attrattiva per il narcotraffico si è avuta in Perú, ennesimo Stato sudamericano da anni incapace di riprendersi dalla grave crisi interna e dall’inaffidabilità di governi corrotti, e in Venezuela, altro importante produttore di cocaina, ma, a sua volta, devastato dalla crisi economica e caratterizzato da una elevata penetrazione dell’esercito nei cartelli della droga, fatto che ha portato questi ultimi a imporre prezzi eccessivamente elevati.
Oltre a quanto visto finora, va considerata tutta una serie di cause interne all’Ecuador che ha portato il Paese all’apice del traffico di droga, alcune, come detto, anche paradossali. Il governo di Quito ha deciso di adottare il dollaro come moneta nazionale a partire da marzo del 2000, e questo ha rappresentato un notevole punto a favore per i narcotrafficanti. Il dollaro è, infatti, la principale valuta con la quale si commercia la droga a livello internazionale e la possibilità di avere il proprio quartier generale all’interno di uno Stato in cui circola questa moneta permette ai trafficanti di riciclare più facilmente il denaro ottenuto con i loro affari.
Inoltre, il presidente ecuadoriano Rafael Correa, in carica dal 2007 al 2017 e uno degli unici due capi di Stato che in quarantacinque anni di democrazia sono riusciti a portare a termine il loro mandato, ha deciso di rendere il più possibile il Paese autonomo dagli Stati Uniti e dargli un’identità sudamericana. Questo ha portato al rifiuto della protezione e della salvaguardia garantite dagli USA; emblematico lo smantellamento della base militare statunitense sita al largo delle coste ecuadoriane, che permetteva di controllare le navi che salpavano dal Paese. La conseguenza è stata una notevole diminuzione dell’attività di pattugliamento delle acque ecuadoriane.
Simili situazioni si sono verificate anche per le strade dell’Ecuador con la cacciata dal territorio nazionale degli agenti della DEA (Drug Enforcement Administration), una delle agenzie antidroga statunitensi, che ha lasciato un ulteriore vuoto nel sistema di sicurezza contro il narcotraffico. Una situazione ideale per i boss della droga, che hanno trovato così nell’Ecuador un luogo di transito per i carichi di cocaina ancora più conveniente e sicuro. La rotta del traffico di droga si è, così, spostata dalla più rapida via attraverso il canale di Panama, alla più tranquilla tratta che passa per le Isole Galapagos, territorio sotto la giurisdizione di Quito.
L’assenza di militari e la scarsità di risorse finanziarie, ha poi lasciato un grande vuoto nella gestione delle carceri, che è così passata direttamente nelle mani dei leader delle bande criminali. Una situazione assurda che vede i boss vivere nei penitenziari nel massimo confort, con la concessione di numerosi benefici e la possibilità di controllare direttamente da dietro le sbarre i loro affari. Una condizione particolarmente comune nelle carceri sudamericane, ma che in Ecuador è stata amplificata dal sostanziale smantellamento del Ministero della Giustizia voluto dal predecessore di Noboa, Lenin Moreno, che ha attuato una politica di drastico allontanamento dagli esponenti del governo correista che lo aveva preceduto, la quale ha colpito particolarmente la giustizia, con l’idea che proprio questa fosse stata usata dall’ex presidente Correa per colpire i suoi oppositori.
Infine, un devastante terremoto che ha colpito nel 2016 la regione di Esmeraldas, principale centro di produzione e commercio della cocaina in Ecuador, ha fatto sì che i tanti trafficanti che si erano concentrati li si trasferissero in altre zone del Paese e che la pratica del narcotraffico si diffondesse a macchina d’olio. Questa stessa catastrofe ha spinto il governo a costruire un sistema di strade moderno e innovativo che ha permesso di collegare in maniera ottimale tutte le aree dello Stato, ma che, allo stesso tempo, ha reso ancora più facile e conveniente per i trafficanti sfruttare l’Ecuador come principale hub della droga in Sudamerica.
Il problema del coinvolgimento dei giovani
La possibilità di guadagnare milioni di dollari in un solo giorno ha reso il narcotraffico una scelta assai allettante per una popolazione povera come quella ecuadoriana, specialmente per i più giovani. Per questo la notizia che a dare l’assalto all’emittente televisiva TC fossero ragazzini dai 13 ai 25 ha stupito ma non troppo. Certo la loro inesperienza ha permesso all’esercito di riportare la situazione alla normalità senza vittime in poco tempo. Ma la spregiudicatezza dei giovani componenti delle gang rappresenta anche un grave pericolo, come si è visto negli episodi di inizio gennaio, con il susseguirsi di atti casuali e senza un preciso obiettivo, perpetuati da persone inesperte e senza controllo semplicemente aizzate dai loro boss.
Detto ciò, i narcotrafficanti hanno dimostrato di non avere difficoltà a mettere in atto operazioni mirate a colpire esponenti chiave dello Stato divenuti troppo scomodi e il terrore che hanno saputo generare ha portato a paragonare la rivolta di inizio gennaio a un golpe.
Il narco-golpe
L’esplosione di violenza causata dalle bande di trafficanti a inizio gennaio è stata definita un narco-golpe. Lo scrittore e giornalista Roberto Saviano spiega questo concetto in un video su YouTube; la principale differenza rispetto ai golpe militari che si sono succeduti negli ultimi anni in Africa risiede nello scopo delle bande criminali: il loro fine non è quello di rovesciare il governo in carica per insediarsi al suo posto, ma scatenare il caos per le strade e terrorizzare la popolazione per dimostrare che loro possono tenere sotto scacco lo Stato se quest’ultimo cerca di mettere loro il bastone fra le ruote; e ottenere dal governo la piena collaborazione.
Il solo tentativo del presidente Noboa di forzare la mano contro i cartelli della droga e proporre il trasferimento di uno dei loro principali esponenti in un carcere di massima sicurezza, e la successiva estradizione negli USA, è stato sufficiente per scatenare in pochissimo tempo i narcotrafficanti in tutto il Paese. Il messaggio è chiaro: chi tenta di mettersi contro le bande criminali diventa uno scomodo intralcio da rimuovere, arrivando anche alla sua eliminazione. Triste sorte toccata a uno dei candidati delle ultime elezioni, Villavicencio, ucciso durante un comizio. E, più di recente, al procuratore Cesar Suarez, che stava indagando sull’assalto allo studio televisivo a Guayaquil. La violenza dei narcotrafficanti ha generato ulteriore violenza nella risposta del presidente Noboa, che ha garantito l’immunità all’esercito e alle forze dell’ordine: qualora dovessero uccidere delle persone, gli agenti non subiranno alcun processo.
A questa decisione si è aggiunta la scelta di dare armi ai civili che si sono offerti volontari nelle ronde per le strade, per dare manforte alle forze dell’ordine nel tentativo di scovare e arrestare quanti più trafficanti possibile. Un’utopia se si pensa che in Ecuador, su una popolazione di 40 milioni di individui, il narcotraffico occupa circa un milione di persone. Per una classica ironia del destino, Quito ha poi dovuto chiedere aiuto anche agli Stati Uniti, gli stessi dai quali aveva scelto di emanciparsi; Washington ha fornito all’Ecuador armi, equipaggiamenti, ambulanze e denaro, e ha inoltre inviato sul territorio alti funzionari del Dipartimento di Stato e dell’esercito e agenti del FBI per aiutare il governo ecuadoriano a fronteggiare le bande criminali.
Il presidente Noboa continua a mantenere i suoi toni rigidi e duri contro quelli che definisce ‘terroristi’ e a dichiarare guerra totale contro tutti i narcotrafficanti, anche verso coloro che apparentemente vorrebbero collaborare. Come nel caso del boss della seconda banda più importante del Paese, Fabricio Colon Pico, capo dei Los Lobos, anche lui evaso dal carcere pochi giorni dopo la scoperta della fuga di Fito. Pico si è detto disposto a consegnarsi alle autorità e a collaborare e ha giustificato la sua fuga sostenendo di essere minacciato di morte all’interno del penitenziario. Ma per il giovane capo di Stato ecuadoriano la collaborazione non pare essere una via percorribile.
Questa politica così drastica ha permesso, al momento, di arrestare alcuni importanti criminali, tra cui un leader delle Farc colombiane, Carlos Arturo Landazuri Cortes, catturato il 22 gennaio scorso, ma la situazione non è ancora tornata alla calma e il Paese continua a vivere nella paura di questa guerra interna che pare promettere di trascinarsi avanti ancora per molto. ♦