«Luigi era uno che tendeva a pensare che nella vita nessuno cambiasse davvero, però sette anni erano tanti»e nel fratello Alfredo ritrova «lo stesso sorriso tagliente, un po’ sporcato dal fumo», ma di lui sa poco o nulla. È tornato in Valsesia dal Canada solo per firmare l’atto di vendita della propria parte di casa ereditata dal padre, sparatosi in testa un anno addietro dopo aver scoperto di essere affetto da un tumore. Ma Alfredo ignora che a Fontana Fredda verranno costruiti degli impianti sciistici, e che quella baita alle pendici del bosco in futuro potrebbe valere una fortuna.
Giù nella valle (Einaudi, 2023) esce in libreria nella stagione in cui è ambientato. In Valsesia butta giù che Dio l’ha mandata, e io mi trovo qui per caso. Sopra i millecinque, la neve si è accasciata silenziosa e nella notte ha tracciato un confine polveroso, che potrebbe essere spazzato via da una folata più calda. Quaggiù cade solo pioggia e la nebbia, o forse nuvole basse, sfumano nel bosco, macchie giallo, verde e arancione caricate dall’acqua. Sono le stesse specie di albero descritte in queste pagine, è raro trovare corrispettivi tra i libri e la realtà, sorrido. Li ho davanti ogni volta che alzo lo sguardo alla finestra, batto i tasti al computer, e penso esistano malinconie attorno cui avvolgere le dita, e mentre si cammina al passo ogni tanto ci si sorride, ogni tanto si desidera non fossero lì, rimanessero indietro sul sentiero e non ti seguissero fino in cima.
È di queste emozioni che è permeato Giù nella valle, e i personaggi che Paolo Cognetti tratteggia mi sembrano nubi che scendono di quota: ti concedono di farsi sfiorare, ma non li afferri mai. Più che del romanzo, respira con i ritmi, le pause e i vuoti del racconto lungo. Cognetti concede il tempo di avvicinarsi ai personaggi, addirittura di prendere le misure e affezionarsi quel che basta, ma a conoscerli davvero no. Lasciano un retrogusto amaro ma a posteriori capiamo che più a lungo non saremmo riusciti a maneggiarli, a perdonarli per le scelte mancate.
Le prime inquadrature della Valsesia sono catturate dallo sguardo di una cagnolina bianca, la cui infanzia viene ‘presa’ da un meticcio grigio, killer che in pochi giorni uccide dieci cani e allarma i valligiani. Cane oppure lupo, e mentre tra i cacciatori si accettano scommesse, loro risalgono il fiume. E se lei prova «una specie di nostalgia» nei confronti dell’uomo, lui va avanti, non si guarda mai indietro.
Le vicende dei due cani coincidono con l’arco narrativo del racconto, e si concludono sulle sponde della Sesia con la mano tesa di Elisabetta. «Siete solo voi che dite il Sesia», l’aveva ripresa il marito Luigi quindici anni prima, un po’ come Bruno che ne Le otto montagne sgrida gli amici di Pietro, «siete solo voi di città che la chiamate natura». Persiste una sorta di incomunicabilità tra due mondi, una compenetrazione che non va a buon fine, un innesto che fatica a germogliare, un’attrazione «di tipo antropologico, o politico se si vuole». Eppure Betta ha lasciato Milano, si è trasferita per amore e adesso è incinta. È per la sua futura famiglia che Luigi vuole acquistare la casa del padre e assicurarsi un nuovo posto di lavoro vicino agli impianti. La grande epidemia della montagna, di cui ancora oggi ci portiamo appresso gli ultimi colpi di tosse: dipendere dal turismo dei villeggianti. Alfredo è stato costretto a tornare per firmare l’atto di vendita – non lo aveva fatto nemmeno per il funerale del padre – ma della costruzione degli impianti «il fratello buono» non gli ha accennato nulla. Lo scoprirà tra un bicchiere di gin e prosecco con i vecchi compari di gioventù, assieme avevano picchiato degli sciatori milanesi in discoteca. È sempre stato l’alcol ad accomunare e unire i tre uomini Balma, Luigi, Fredo e loro padre Grato. Bevute che duravano giorni interi, «senza che uno, non conoscendoli, si accorgesse di qualcosa». E mentre Luigi «desiderava solo levarsi la divisa di dosso e piazzarsi al bancone con quei tre» Alfredo vorrebbe «un bell’abbraccio da mio fratello. O anche fare a pugni, scegli tu. Qualcosa di vero. Con quegli occhi pieni d’alcol, Fredo lo fissò. Occhi stravolti, ma non feroci. Occhi di un uomo più onesto di lui».
Però forse è giusto così: Luigi è rimasto, Fredo no. Ha lasciato la Valsesia per non diventare come Grato, «intristiva assieme a questo posto, papà», lo paragona agli indiani delle riserve, «da Fontana Fredda la gente se ne andava ed era lui che veniva abbandonato, un pezzo del suo cuore sprangato e lasciato al gelo, la gramigna che cresceva nei campi incolti del suo spirito». Ha voluto recidere ogni legame, e abbattere a colpi d’accetta l’abete che suo padre aveva piantato nel cortile di casa è il gesto definitivo. Rimane il larice di Luigi, che forse sarebbe cresciuto meglio senza l’abete a fargli ombra.
Paolo Cognetti vagabonda con i punti di vista, rievoca la stessa brutalità con cui randagio grigio azzanna alla gola i suoi avversari mitigata dalla dolcezza della cagnolina bianca a leccargli il sangue. Un fuori e dentro crudi, che si interromponop proprio quando ne vorremmo ancora.
Racconta una valle abbandonata a se stessa, ingrigita dai cementifici, dai rifiuti tossici provenienti dalla città e diretti nelle discariche, dalle autorimesse lungo la provinciale, l’insegna al neon del bowling e la luce artificiale della pompa di benzina: ogni cosa è sporcizia incrostata dall’uomo.
Eppure, un po’ più in alto, forse nei pressi di una Fontana Fredda, in questo momento sto guardando fuori dalla finestra. «In alto c’è già la neve, in basso una nebbiolina. Questo cielo, questa luce» pensa Betta mentre osserva la valle dal cortile della casa di Grato. Probabilmente non è lo stesso scorcio che ho davanti io, ma condividiamo lo stesso sconcerto: «Proprio non ci arriva, a capire perché siano andati via tutti». Forse perché anch’io, come lei, vengo dalla città.
Betta è una carezza dolce tra uomini che comunicano a fatica, un tentativo di comprensione e di cura, uno sguardo più pietoso, addirittura ingenuo se paragonato a quello di Fredo e Luigi, su luoghi che Cognetti descrive secco, linee di carboncino che seguono le anse del fiume.
La montagna appare solo alla fine, quando «la vecchia provinciale della mia anima» gira e Luigi si ritrova davanti il ghiacciaio del Rosa che «splendeva da far male agli occhi. (…) Giù da noi l’ombra era già calata un pezzo, mentre lassù il ghiacciaio rifletteva il sole». Sembra quasi una divinità che, però, «su questa valle buia dove i nostri peccati giacciono, inespiati», non salva nessuno.