Perché ogni persona che l’ha incontrata la racconterà in modo diverso

Se si dovesse raccontare Michela Murgia forse sarebbe corretto partire dai suoi libri. Citare Accabadora – con cui nel 2010 vinse il premio Campiello -, Chirù, Ave Mary, Tre ciotole, Il mondo deve sapere, God save the queer, e altri ancora.
Tuttavia è probabile che nei primi cinque minuti nessuno li nomini. Non perché non abbiano avuto successo o per mancata qualità letteraria, anzi; piuttosto perché Michela Murgia è stata una complessità tanto vasta da saper dire a ognuno qualcosa. E i suoi romanzi hanno rappresentato soltanto una parte di ciò che lei ha lasciato nel mondo.

Una persona potrebbe dunque partire dicendo che fosse normale avere la sua voce in casa: per i suoi interventi a Radio Capital, per il suo podcast Morgana o per i dibattiti di Buon Vicinato, con l’amica e scrittrice Chiara Valerio. Che l’impressione fosse di avere una sorella maggiore; una che per alcune vie era già passata, e ora aveva da dire a cosa prestare attenzione. 

Un’altra, invece, proverebbe a raccontarla scegliendo una parola: pensatrice. O forse ne servirebbero almeno due: libera pensatrice. E, al contrario di ciò che si possa pensare, dovrebbe precisare quanto di poco romantico e leggero vi sia in questa definizione. Per molti infatti, il suo pensiero libero è stato – lo è tuttora – fastidioso, a tratti perfino odioso. Un pensiero esigente e mai accomodante. Che incriminava chi aveva colpe e obbligava anche chi aveva una visione affine a volere di più. 

Non sarebbe strano iniziare a parlare della sua valenza politica. Murgia si è resa portavoce di ciò che la sinistra per tanti anni non è riuscita a dire, creando una situazione paradossale per cui la destra italiana non attaccava più l’opposizione politica, ma lei e Roberto Saviano.
Ricorderete sicuramente quando, proprio quest’anno, Meloni portò in tribunale Saviano, in sostengo del quale si presentarono molti intellettuali. Tra questi Murgia, lì per dire che un intellettuale portato in tribunale da una carica politica non è un problema dell’intellettuale, ma un problema di libertà d’espressione e che quindi riguardava tutti.

Gli ultimi ad averla conosciuta potrebbero raccontare il suo maggiore impegno di questi tempi: il femminismo. Il suo contributo a partire da ciò che meglio conosceva: la lingua. Murgia è stata capace di portare chi la leggeva a chiedersi come mai avvocata, magistrata, chirurga e ingegnera suonino male e invece cameriera, maestra e casalinga suonino benissimo. O perché sistematicamente due scienziati che facciano una scoperta siano il Dott. Rossi e il Dott. Bianchi, mentre se a farla fossero due scienziate queste sarebbero Marta e Carolina.
Il suo lavoro ha reso evidente come attraverso la lingua vengano perpetuati secoli di disuguaglianze e discriminazioni. Su questo, il suo libro Stai zitta e sui social La rassegna sessista della domenica.

O ancora si potrebbe partire da ciò che di lei più mancherà: il suo sguardo sul mondo. Di una notizia, si aveva la certezza che avrebbe detto quello che nessuno voleva sentirsi dire: molto spesso che i fatti del reale sono complessi, e che analizzarli non equivale a essere pesanti, ma capaci di conoscere, e quindi di progredire.
Aveva la qualità delle grandi pensatrici: creava traiettorie nell’esistente e riusciva a vederle prima degli altri. 

Ci sarà invece chi la ricorderà per la narrazione della sua malattia. Un monito perché non venisse più trattata come un campo di battaglia o una guerra da combattere. Che coloro che muoiono non sono stati meno forti e coraggiosi di chi è guarito. Che venire a mancare per una malattia non equivale ad aver perso. Tra i suoi ultimi interventi al Salone del Libro di Torino, Murgia ha raccontato come non fosse arrabbiata di avere il cancro, ma che facesse parte della complessità dell’essere umano. Discorso che trova la sua pioniera in Susan Sontag, scrittrice del saggio Malattia come metafora.

Ci sarà, forse, chi racconterà della propria queer family, e se lo farà sarà anche grazie a lei; che sottoponendosi un’ultima volta al giudizio, ha permesso di ampliare il ventaglio del possibile. Murgia ha raccontato che può esistere un altro tipo di famiglia. Senza la presunzione di dire che sia migliore o che tutti debbano adattarsi a questa forma. Ma che esiste una famiglia in cui non sono i legami di sangue a definire i rapporti, o non soltanto, e che può avere altrettanta rilevanza la scelta di chi portare con sé nella quotidianità. 

Ciò di cui ci si rende conto dopo averla raccontata in molti modi è che non è rilevante il punto da cui si parte per parlare di Michela Murgia: l’importante è che lo si faccia. Non per celebrarne le opere, ma per portare avanti l’eredita che ci ha lasciato: molti sentieri, tutti destinati alla realizzazione di una realtà più equa e dignitosa. Perché «non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai».

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