Con Challengers la fascinazione di Guadagnino per le storie d’amore giunge a un punto di non ritorno. Nel raccontare la vicenda di Tashi (Zendaya), Art (Mike Faist) e Patrick (Josh O’Connor), tre talenti del tennis legati da un rapporto di stima reciproca che va ben oltre la bravura nel maneggiare la racchetta e che supera di gran lunga la semplice amicizia, l’esperienza agonistica finisce per coincidere nel sublime dell’impresa erotica. Un film che, nel suo essere kitsch e pornograficamente sportivo, strizza l’occhio al Gore Vidal più camp de La statua di sale e all’isterico realismo del David Foster Wallace de Il tennis come esperienza religiosa.
La poetica di Guadagnino
Spesso i personaggi di Guadagnino sentono l’estremo bisogno di annullarsi e abbandonarsi nell’Altro, di lasciarsi andare a qualcosa che avvertono come più grande di loro e con cui vorrebbero coincidere. Sotto questo aspetto, il titolo più famoso del regista, Call me by your name, è estremamente esplicativo. Ma si pensi anche a Suspiria e Bones and All, dove la bruciante passione dei protagonisti si esemplifica nell’atto bestiale del massacro e il tema della sostituzione assume una connotazione ritualistico-sacrificale. Nel primo caso, Susie, grazie alla dedizione per la danza, prima rimpiazza una ballerina in uno spettacolo, poi finisce per incarnare una potente strega durante un sabba. Mentre nel secondo, Maren, in un gesto d’amore cannibale e disperato, mangia vivo il suo ragazzo per averlo sempre in sé.
In quest’ultimo lavoro invece, la dimensione sportiva diventa la prima e più concreta manifestazione del sacro. I continui allenamenti, match e tornei codificano la vita dei tre tennisti talmente in profondità quasi fossero piccole consuetudini liturgiche e atti sacrificali.
Il tennis come esperienza religiosa
In Challengers, come dice Tashi a un certo punto del film, il tennis è una relazione. Confrontarsi con chi sta dall’altra parte della rete diventa l’unico modo per potersi mettere a nudo e conoscersi davvero. Come nel sesso, nella danza e nell’azione violenta, anche nel tennis si è ridotti al mutismo: l’unico linguaggio che conta, l’unico da cui possa trasparire sincerità, è quello del corpo. Georges Bataille scriveva che l’erotismo è l’approvazione della vita fin dentro la morte. Con queste parole lo scrittore descriveva il rapporto sessuale come l’unico momento dove si potesse comprendere lo stato di desolante solitudine cui è costretto l’essere umano. Per Bataille, l’orgasmo rappresentava la plenitudine dello sconforto proprio perché, nella piccola morte, la volontà di fondersi col partner, di diventare l’Altro, raggiungeva il suo apice manifestandosi allo stesso tempo in tutta la sua impossibilità.
Così, in Challengers, nel loro vicendevole guardarsi, studiarsi e prevedersi, i tennisti che si spartiscono il campo da gioco diventano ombra e riflesso dell’altro insieme. La rete permuta in uno specchio-membrana che tiene i corpi dei giocatori separati e confinati nella propria pelle. Quello che dovrebbe essere un confronto tra due persone è prima di tutto un duello con se stessi. L’unico elemento di permeabilità, destinato a sconfinare nella metà campo dell’altro e che rende i personaggi consci di chi hanno di fronte, è la palla: oggetto portatore di una volontà di scambio e comunicazione.
Sacro e profano
Non a caso la macchina da presa, durante il riuscitissimo finale dall’andamento cumulativo e iper-climatico, diviene un occhio fluttuante che rimbalza di racchetta in racchetta. Nel momento in cui la competizione si fa più rabbiosa e concitata, questo cacciare via la palla dal proprio campo diviene rifiuto dell’Altro, oltreché animalesco tentativo di autoaffermarsi nel territorio avversario. L’unico modo di istigare la comunicazione pare essere quello di continuare a negarla e di crearne l’assenza. Forse è questo l’unico modo per vedere quello che Tashi definirebbe del buon tennis. D’altronde, se in Challengers l’agonismo è erotismo, donare la sensazione di una mancanza significa donare nuove propensioni al desiderare. ♦︎