«È cominciato ed è finito il Festival di Sanremo. Le città erano deserte; tutti gli italiani erano raccolti intorno ai loro televisori». È così che Pier Paolo Pasolini descrive l’Italia a qualche giorno di distanza dalla fine del Festival di Sanremo. È un paese paralizzato in una tregua collettiva e necessaria, che neutralizza ogni conflitto. Almeno per un po’.

È il 1969. L’Italia di Pasolini è un paese nel pieno della contestazione, a un passo dalla tragedia di Piazza Fontana. Gli studenti e gli operai sono in rivolta. Il governo di Saragat è impacciato e in rotta di collisione con le proteste. Eppure, in questo clima di forti tensioni, sull’emittente Rai la sera del 30 gennaio tutto sembra uguale: infatti va in onda come di consueto il Festival di Sanremo, allora alla sua 19^ edizione. È la prima serata e, sul secondo canale Rai dopo il Carosello, Lucio Battisti esordisce al Festival con il brano Un’avventura. Si sono sintonizzati, dopo il telegiornale, circa venticinque milioni di telespettatori. Sui giornali di quei giorni c’è poco spazio per altro: Sanremo occupa tutte le testate. E le notizie che arrivano dal mondo (i nuovi scontri a Berkeley, l’invasione della Cecoslovacchia, l’insediamento del neo-presidente Nixon) sembrano un’eco lontana: la musica di Sanremo copre tutto il resto, tanto da beccarsi gli strali d’indignazione di molti critici, tra cui Pasolini, che ritiene lo spettacolo sanremese un semplice momento di intrattenimento di cattivo gusto, che con le sue «canzonette» deturpa irrimediabilmente una società e distrae le masse da ciò che veramente dovrebbe interessarle. Com’è possibile che le uniche proteste di cui si legga sui giornali siano quelle per i prezzi dei biglietti del Festival, troppo alti perché tutti li possano acquistare? Ma no, non è solo una protesta moralistica contro chi ha il privilegio di comprare quei biglietti. Si tratta, anzi, di una sommossa in nome del diritto che tutti dovrebbero avere di evadere dalla realtà: un biglietto per sognare e dimenticare cosa accade al di là, fuori dal Casinò di Sanremo. Un biglietto per non pensare a nulla eccetto che agli elegantissimi abiti indossati dalla ‘signorina buonasera’ Gabriella Farinon, alle battute sagaci del presentatore Nuccio Costa; un biglietto per giudicare le performance dei concorrenti, chi canterà male, chi vincerà e chi perderà. Di tutto il resto poco importa.

In fondo, da allora è cambiato ben poco: il 74° Festival di Sanremo è alle porte e l’atmosfera che si respira è la stessa. Non ha importanza che lo si ami o lo si odi, che si abbia già formato con gli amici la squadra del Fantasanremo o che si eviti con cura tutto ciò che riguarda il contest canoro «più soporifero d’Italia», come sosteneva il giornalista Indro Montanelli. La settimana di Sanremo rappresenta il momento in cui, ogni anno, l’Italia si ferma e si incolla alla tv per seguire lo spettacolo che tutti guardano, anche se non lo ammettono. Perché Sanremo ci attrae tanto? Si tratta solo di mero intrattenimento o di una distrazione necessaria? Si tratta, davvero, solo di «canzonette», come rimarcava Pasolini, in evidente tono dispregiativo? L’hanno paragonato al Super Bowl americano per il senso di appartenenza che crea, quasi fosse una festività comandata al pari del Natale e della Pasqua. Non si tratta di blasfemia, la settimana di Sanremo è davvero un momento sacro. Ma che cos’è Sanremo oltre a un rito all’insegna dell’evasione collettiva?

Non solo canzonette

La canzone è un fatto di costume, è espressione della società e dei suoi cambiamenti. Non stupisce che le prime edizioni del Festival abbiano visto sul podio canzoni patriottiche e tradizionali, come Vola colomba e Grazie dei fior interpretate da Nilla Pizzi. È l’Italia del miracolo economico e della nuova automobile della Fiat, la ‘Cinquecento’, quella di cui nel 1958 Domenico Modugno canta in un brano che entra nella storia musicale internazionale: Nel blu dipinto di blu. Una melodia semplice, un testo indimenticabile. A cantarla è l’Italia del boom, che si vuole lasciare alle spalle le sofferenze della guerra: è un’Italia che inneggia alla leggerezza e che vuole «volare».

«Penso che un sogno così non ritorni mai più» recitano i primi versi, ed è proprio il palco di Sanremo, con l’esibizione di Modugno a braccia spalancate, a diventare il simbolo di quel sogno: quello che tutti vogliono vivere. Qualcosa cambia negli anni ’60, periodo in cui le «canzonette» iniziano ad uscire dalla castità verbale delle prime edizioni del Festival e contribuiscono a fotografare una nazione che cambia. I testi si fanno più audaci e, nonostante le censure, un esempio di questa inversione di tendenza contro il perbenismo democristiano è la canzone 4/3/1943. Interpretata nel 1971 dall’allora sconosciuto Lucio Dalla, racconta la storia di una ragazza madre che ha un figlio con un soldato straniero. «Non vinsi», racconta Dalla in un’intervista «ma vendetti molti dischi e la gente mi conobbe. Con Piazza Grande nel ’72 decisi che non avrei fatto più Sanremo perché ero in polemica con quel mondo lì».

È un mondo, infatti, quello di Sanremo, da cui molti cantautori a partire dagli anni ’70 decidono di tenersi alla larga. Il conflitto tra canzone d’autore e canzone mainstream esacerba la distanza tra i due poli: quello del cantautorato italiano e quello dello spettacolo. Guccini, De André e De Gregori si sono sempre tenuti lontani da Sanremo, pur riconoscendone il forte valore sociale e anche i suoi limiti, quelli di una competizione spesso malsana ed iniqua. A cadere vittima di questo sistema è Luigi Tenco, che si toglie la vita dopo l’esibizione del proprio brano Ciao amore, ciao in una delle serate del Festival di Sanremo dell’anno 1967. Il biglietto che abbandona sulla scrivania della stanza 219 dell’hotel Savoy non lascia dubbi: «Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro), ma come atto di protesta verso un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione». Nelle parole di Tenco non emerge solo la rabbia suscitata dal voto della giura a suo sfavore, ma anche l’incapacità di riconoscere il valore del testo della sua canzone, in forte critica con la società moderna che obbliga «in un mondo di luci» a «sentirsi nessuno» e a «non saper far niente in un mondo che sa tutto». Quello di Tenco è un gesto estremo che, tuttavia, grazie alle parole della sua canzone, fa risuonare il disagio collettivo che un’intera classe sociale sta vivendo. Il suo suicidio viene appena accennato durante il Festival, ma la sua vicenda e la sua canzone sono il segno che qualcosa deve cambiare.

Teatro Ariston - All Rights Reserved Ⓒ Alex Lawrence Photography
Teatro Ariston – All Rights Reserved Ⓒ Alex Lawrence Photography

Perché Sanremo è Sanremo: la nascita del mito

«Cominciò come Festival della canzone, poi si passò all’attore, poi dall’attore al personaggio: lo chiamano ‘look’ ma mi pare che per certi aspetti ricordi di più il circo. Domanda: ma è utile questo Festival di Sanremo?» A porsi questa domanda è Enzo Biagi, celebre volto e giornalista Rai, nel programma Linea Diretta, andato in onda alla fine degli anni Ottanta, quando Sanremo era un fatto di costume ormai consolidato all’interno della società italiana.

Le critiche più sentite, mosse contro Sanremo in quel periodo, riguardano il ruolo di secondo piano a cui si è relegata la musica: anche l’adozione del playback sembra suggerire che lo show abbia preso il sopravvento. Eppure Sanremo tiene insieme la nazione, è una tradizione a cui l’italiano medio non sa rinunciare, come il calcio. Non si tratta più solo di una competizione musicale, ora ci sono anche i grandi ospiti internazionali, la scenografia e, soprattutto, la scalinata dell’Ariston. Infatti, dopo il trasferimento dal Casinò al teatro Ariston nel centro del Paese, il Festival di punta della Rai diventa un vero e proprio show televisivo. Il tutto in perfetta linea con i tempi che cambiano, in cui ‘provocazione’ diventa la parola d’ordine. Vasco Rossi inneggia a una «vita spericolata», Loredana Bertè si esibisce con un finto pancione rivendicando la libertà femminile, il talent scout e produttore Claudio Cecchetto conduce Sanremo e lancia la sua hit Gioca Jouer. Tra anni ’80 e ’90 è chiaro ai concorrenti che il primo posto non è più sinonimo di vittoria: i veri vincitori sono quelli che non vincono, come per Mia Martini che presenta a Sanremo Almeno tu nell’universo piazzandosi solo al nono posto. Non mancano poi momenti di tensione, in cui la realtà entra nella sospensione precaria rappresentata dallo show: come quando nel ’92 Mario Appignani, anche noto con il soprannome di ‘cavallo pazzo’ fa irruzione sul palco urlando «questo Festival è truccato e lo vince Fausto Leali!», o quando nel ’95 in diretta tv irrompe un uomo, Pino Pagano, che dice di essere disoccupato e di volersi buttare giù dalla balconata. Sanremo è anche questo, l’Italia è anche questa. Insomma, momenti che danno adito a un susseguirsi di teorie sull’impronta folkloristica del Festival. D’altronde lo dice Umberto Eco: «non è necessario che intrattenimento ed evasione, gioco, ristoro siano perciò stesso sinonimo di irresponsabilità, automatismo, qualunquismo, ghiottoneria sregolata». A consolidare il ruolo di primo piano del Festival è la sigla composta nel 1995 da Pippo Caruso, celebre direttore dell’orchestra dell’Ariston. La sigla, con l’iconica melodia che accompagna le parole del ritornello («Perché Sanremo è Sanremo»), aprirà tutti i Festival che seguiranno fino al 2008, condotti dallo storico presentatore e amato volto Rai, Pippo Baudo.

Ma menomale che c’è Carla Bruni

È sopravvissuto ai primi anni 2000, in cui lo share è sceso ai minimi storici nell’edizione di Simona Ventura del 2004; è sopravvissuto alla pandemia Covid nell’edizione 2021 guidata dall’allora neo-conduttore sanremese Amadeus, che all’epoca era solo al suo secondo mandato. Il Festival di Sanremo si è rivelato un appuntamento a cui non si può rinunciare: soprattutto da quando con il nuovo direttore artistico, la musica in gara è più vicina ai gusti di un pubblico social. Nell’era social, infatti, il folklore sanremese non è più solamente vissuto in una serata tra amici davanti a una pizza. Tra le piattaforme X (ex-Twitter) e Instagram le interazioni effettuate durante le serate del Festival hanno rivelato picchi incredibili e una spiccata presenza di under 25. I meme spopolano e le squadre della competizione virtuale del Fantasanremo sono sostenute da noti sponsor.

Al compimento del suo 74° anno di età il Festival di Sanremo, precursore dei talent, non solo ha dimostrato di aver saputo stare al passo coi tempi, ma anche di aver saputo ringiovanire. La vittoria di Mahmood nel 2019, a sorpresa rispetto ai pronostici, che vedevano sul podio artisti più tradizionali portatori delle solite e per questo bistrattate ‘ballate sanremesi’, ha segnato l’inizio di un nuovo periodo musicale all’insegna di artisti esordienti. Nuovi atteggiamenti sono adottati sul palco: fiori consegnati sia agli uomini che alle donne, presentatrici che escono dal ruolo di ‘donna immagine’ o di ‘valletta’ e tentano di portare contenuti che non le rendano marionette bidimensionali, come aveva voluto la tradizionale conduzione passata. La scalinata resta, perché resta la voglia di sognare.

Allo stesso modo il Festival resta uno specchio fedele delle trasformazioni socio-culturali dell’Italia, ma soprattutto una sacra distrazione dai problemi perché, come aveva scritto Simone Cristicchi, concorrente a Sanremo 2010, nella canzone Meno male, «la gente non ha voglia di pensare a cose negative». E il Festival di Sanremo di oggi, tra momenti trash immortalati dai social («Dov’è Bugo?») e picchi di puro e polveroso tradizionalismo (ma a cui siamo affezionati), ci riserba proprio di questo: una ghiotta pausa musicale dalle nostre vite. ♦︎

Rebecca De Vecchi
Amo la provincia, i libri della biblioteca e il caffè d'orzo. Scrivo poesie. Colleziono tazze commemorative della Regina Elisabetta II. Sono un'inguaribile romantica. Il mio sogno è tornare indietro nel tempo per frequentare i caffè letterari nella Parigi degli anni '20.

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