Giuda, la chiave per la salvezza

Un modo originale per raccontare una storia ormai non più originale è cambiandone il punto di vista: fornire una diversa versione dei fatti, anche se già molto noti, attraverso un’altra voce che, vuoi per economie letterarie, questioni morali o imperscrutabili disegni divini, non è stata ancora ascoltata, sovrastata magari da un narratore onnisciente, o troppo lontana dal microfono nelle mani del protagonista,  all’ultima fila di un coro polifonico, o addirittura fuori da esso. Queste narrazioni sono solitamente integrative e spesso apologetiche, quando il fine ultimo dell’autore è quello di fare luce sui moventi dietro le azioni che hanno portato quel personaggio ad assumere un determinato ruolo nella vicenda ‘ufficiale’. Sono quindi opere che nascono principalmente per fornire delle risposte plausibili a quegli interrogativi che sorgono spontanei al lettore più attento, curioso, forse anche un po’ polemico, che terminato un libro – quasi sempre un grande classico – non si sente del tutto appagato e non accetta quella narrazione come l’unica possibile. La mancanza mette quindi in moto la ricerca e, potenzialmente, le basi per una nuova interpretazione dei fatti. Da queste premesse sono partiti molti scrittori come Jorge Luis Borges che dà voce ad Asterione, il minotauro del mitico labirinto cretese, nel racconto contenuto nell’Aleph, Luigi Malerba, che sdoppia il tredicesimo libro dell’Odissea alternando le voci dei coniugi Ulisse e Penelope in Itaca per sempre, o Nikos Kazantzakis, che nel suo controverso romanzo L’ultima tentazione di Cristo immagina un Gesù che, ormai crocifisso, ripensa alla sua vita e si chiede come sarebbe stata se ne avesse avuta una ‘normale’, senza incombenze dall’alto.  

In questo – del tutto parziale – elenco rientra a pieno titolo anche l’ultimo romanzo di Giuseppe Berto, La gloria (Neri Pozza). Scritto nei sei mesi che ne precedettero la morte nel 1978, La gloria è un romanzo in forma di monologo in cui Berto dà la possibilità a Giuda Iscariota, il traditore per antonomasia, di autodifendersi, esponendo la sua versione riguardo ‘i fatti di Gerusalemme’, cercando di chiarire il suo fondamentale e mal interpretato ruolo nel grande piano della Redenzione. Tutta la narrazione ruota quindi attorno a questo assunto, cioè che Giuda, il discepolo maledetto, quello che da più di venti secoli ha rappresentato l’epitome del male incarnato, sia invece stato la chiave necessaria per la salvezza perché senza il suo tradimento non si sarebbe innescata la catena di eventi che portarono poi al compimento delle Scritture e quindi al triduo messianico di passione, morte e resurrezione del Cristo. 

Con una prosa impregnata di biblismi, che procede mista –  a tratti chiara e razionale, a tratti per volute attorcigliate su sé stesse, come calco dei pensieri del dodicesimo apostolo – seguiamo le vicende di un Giuda tormentato, che cerca risposte a quelle domande esistenziali che perseguitano le menti pensanti e le anime dubbiose come la sua dall’alba dei tempi. Come fine teologo, tiene traccia delle simbologie profetizzate nelle Scritture e le confronta razionalmente con ciò che il Maestro predica e compie: «e dietro di lui andavo per ragionamento, forse per incantamento, non per fede». Ma è anche un Giuda che ama, ama così tanto da mettere da parte i dubbi e accettare il ruolo straziante che Gesù – figura misteriosa, enigmatica e affascinante, suo opposto e complemento, in questo manicheo gioco di specchi in cui l’Io di Giuda scruta continuamente il Tu del Cristo – gli affida, nell’ineffabile opera della Redenzione. è un ruolo che solo lui, sempre scisso tra una sprezzante superiorità rispetto agli altri seguaci e un profondo senso di inadeguatezza davanti a ciò che gli viene chiesto, può interpretare:  «Era sottointeso che toccasse a me, e io ero pronto, quando l’avessi voluto».

la gloria di Giuseppe Berto
“La gloria” di Giuseppe Berto. Giuda, la chiave per la salvezza

In questa specie di apocrifo, Giuda si racconta quindi come il prescelto dal prescelto, il capro espiatorio dell’Agnello di Dio, strumento indispensabile per la gloria di Cristo. «Lui lo sapeva che la sua gloria sarebbe stata dovuta anche a quel che io pagavo in ignominia e dannazione eterna.»: fino a questo si spinge la sua devozione, senza limiti, violenta e gelosa, che ricalca quella degli Zeloti di cui fa parte. E l’infamia millenaria che scaturirà dal tradimento non lo spaventa, anzi gli conferisce una perversa santità: sarà il suo martirio, e l’albero a cui s’impiccherà la sua personalissima croce. Eppure, nonostante tutti i preparativi, le parti assegnate e recitate alla perfezione, i simboli riconosciuti e le profezie compiute, nonostante il sacrificio finale, «nell’opera della redenzione qualcosa non ha funzionato». Questa l’eretica conclusione a cui Giuseppe Berto, un non credente fortemente turbato dal fascino senza tempo delle Scritture, giunge attraverso l’alter ego Giuda, dando voce a «coloro che non credono in Dio, ma sentono l’angoscia di non crederci», come dichiarò lui stesso in un’intervista. 

Berto, che alla fine degli Anni ‘70 conduceva ormai una vita quasi eremitica, lontano da circoli, partiti e accademie, chiude la sua parabola terrena con questa specie di quinto Vangelo (titolo di un’altra affascinante rilettura biblica, pubblicata solo tre anni prima da Marco Pomilio, al quale Berto stesso ha fatto riferimento più volte), che è anche una sorta di testamento spirituale.  Ne La gloria si raggiunge il culmine di quel complesso di emarginazione e colpa, intrecciato, secondo Berto con «un parallelo istinto di esibizione», già affrontato da lui in altri romanzi come Il brigante del 1951 e La passione secondo noi stessi di vent’anni dopo. Culmine che coincide con la sua identificazione non più con il Cristo messia e martire, ma con il Giuda traditore per troppo amore: un personaggio profondamente umano e disperato che, con i suoi mille interrogativi, si fa portavoce di chi ancora, a prescindere dal proprio credo, cerca una qualche risposta prima della fine dei tempi, «significhi quel che vuol significare».

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