Perché scrivo? Cosa significa scrivere? Sono domande che tentano di afferrare una radice, un’origine, un principio primo propulsore e creativo. Sono interrogativi che dilaniano sia lo scrittore di professione che l’amatore, i quali sporcano in maniera bulimica pagine bianche con appunti, storie o notazioni diaristiche, per rendersi dimentichi di quesiti talmente insidiosi da farli sprofondare verso un abisso dove nemmeno la scrittura-azione riuscirebbe a traghettarli. Quasi sempre infatti, l’oggetto d’interesse della scrittura è estraneo alla scrittura stessa. Essa, si può dire, viene utilizzata per ‘parlare’ d’altro.
Grandi autori hanno indagato il problema. Si pensi al saggio di Roberto Bolano LETTERATURA + MALATTIA = MALATTIA o ai disagi di molti personaggi-scrittori di Thomas Mann. Si potrebbe procedere a ritroso fino ad arrivare ad Aristotele e Platone, incontrando un sacco di dissertazioni e tentativi di dare una chiusa alla faccenda che, sostanzialmente, rimane aperta e insoluta. Quindi, ancora: perché si scrive? E cosa significa?
Classe 1988, i registi-poeti gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo nei loro lavori cinematografici sottopongono, in maniera assidua, a continui sondaggi e revisioni questa problematica. Al centro della loro poetica sembra esserci il rapporto uomo-scrittura. Questa scrittura talvolta è inscindibilmente legata al gramma, alla dimensione testuale, come è evidente (già nei titoli) in Favolacce e Dostoevskij, altre volte si presenta sotto forma di spettro mentale, come una forza che spinge i protagonisti delle vicende a proiettarsi in una dimensione di completa fictionalization, al di fuori della realtà. Lo si vede ne La terra dell’abbastanza e in America Latina. In ogni caso, la scrittura è sempre legata alla biografia, al diario, all’auto-narrazione del proprio sé.
Testo e Cinema
Ciò è emblematico se si pensa che la vita dei due cineasti è caratterizzata dall’amore per i testi. In una lunga intervista rilasciata su La Stampa, i D’Innocenzo raccontano di come i loro genitori si divertano a scrivere sceneggiature e poesie, scrivendo per scrivere, senza l’intenzione di vedere quei lavori pubblicati o trasformati in film. In più, i due fratelli hanno mosso i primi passi nel mondo del cinema nelle vesti di ghostwriters, scrivendo tantissimo senza firmare nulla. Il riconoscimento di questi anni di ‘tirocinio’ arriva nel 2018 quando hanno l’opportunità di mettere il proprio nome in calce al copione di Dogman di Matteo Garrone. ‘Scrivere è sempre stata un’estensione di quello che siamo’ dichiarano.
Sempre nel 2018 esce in sala La terra dell’abbastanza, il loro esordio alla regia. La trama racconta di due ragazzi della periferia di Roma che investono accidentalmente un pentito, uccidendolo. Loro subito cercano di nascondere l’accaduto, ma ben presto finiscono con lo svolgere piccoli compiti per il clan che l’uomo deceduto aveva tradito. I ragazzi, malgrado siano pedine di poco conto all’interno della cosca, cominciano a sentirsi importanti e protetti, proiettandosi in un’adrenalinica fantasia gangsteristica che per un breve periodo farà loro credere di essere ‘i re del mondo’, per dirla alla Tony Montana.
Scrittura e proiezioni
Il film presenta delle caratteristiche che ritorneranno in maniera ossessiva in tutte le opere successive. Innanzitutto, la scrittura-narrazione a cui i protagonisti si rifanno, ovvero la volontà di far combaciare la propria immagine con la sagoma del malavitoso, assolve una funzione di accentramento del sé, è un modo per i personaggi di rendersi centro gravitazionale attorno a cui tutto ruota, tonica-pilastro di un intero componimento. Questa operazione diventa estremamente significativa se pensiamo ai personaggi che popoleranno le future storie dei D’Innocenzo. Spesso emarginati, reietti e alienati confinati nelle periferie, relegati in terre di nessuno ai margini della metropoli che, eccezion fatta per Dostoevskij, è sempre Roma, l’urbe per eccellenza, la città eterna. Questi personaggi sono sia geograficamente che psichicamente decentrati, fuori-asse. La scrittura diventa così un modo non solo per sradicarsi dalla periferia, ma anche per riassettarsi, cercando di coincidere con un modello narrativo autoindotto, simulacrale silhouette superegoica a cui tentare costantemente di corrispondere e rendere conto.
Questo continuo inscriversi in un’immagine modello spesso è legato al bisogno di emanciparsi da un’insondabile e sempre difficile da metabolizzare figura genitoriale. Nel film sopracitato i protagonisti sono mossi dalla volontà di essere indipendenti, mentre in Favolacce si ha a che fare con dei baby-terroristi di stampo vansantiano (si pensi a Paranoid Park o Elephant). In quest’opera dei ragazzini finiscono col costruire ordigni esplosivi per poi suicidarsi in un rituale collettivo per l’impossibilità di comprendere i genitori, piccoli borghesi della provincia romana che, pur essendo vicini di casa e fingendo di essere in buoni rapporti, si disprezzano l’un l’altro. I bambini sembrano assorbire per osmosi tutte le criticità, i rancori e le ipocrisie degli adulti, che finiscono col rigettare in un atto di violenza determinato dall’impraticabilità di un dialogo con i capi famiglia.
Pagine sporche
La cosa più interessante di Favolacce è il fatto che sia raccontato da uno sconosciuto narratore-lettore che dichiara di aver trovato un diario nella spazzatura. Il film rimane aperto alla possibilità che il ‘diario’ non riporti necessariamente una storia vera e che la sua valenza documentativa di ‘attestato di verità’ possa essere fallace. Il fulcro della vicenda sta proprio nel raccontare le storture causate dalla scrittura e nella capacità che la scrittura ha nel far perdere le tracce di tali distorsioni, impendendo così di poter risalire a un’origine-verità in grado di sciogliere i nodi di certe problematiche.
Il terzo film dei fratelli D’Innocenzo è America Latina, il cui protagonista è confinato sempre all’ombra di Roma e ammorbato da un’ingombrante figura paterna. Il titolo sintetizza efficacemente la poetica dei due cineasti. Il sogno chimerico di una terra dove tutto è possibile, che ha fatto del self-made man e dell’autorealizzazione la sua tagline va a braccetto con il nome di una delle città più disagiate del Lazio. La storia ruota attorno a un dentista, Massimo Sisti, che vive in una villa nei dintorni di Latina, il quale sembra circondato da una moglie e delle figlie perfette. Un giorno l’uomo trova una ragazzina imbavagliata e legata nella sua cantina. In preda allo shock, lui decide di tenere nascosta la bambina alla sua famiglia e di cominciare ad indagare. Pian piano il protagonista si rivelerà essere un pregiudicato: lui ha rapito la bambina e moglie e figlie non sono che una sua proiezione mentale.
Un paesaggio cerebrale
America Latina delinea un cortocircuito che tenta di mettere in luce la dicotomia tra dolcezza e brutalità, attraverso una vivisezione dell’animo maschile, attenta e minuziosa nell’indagare le pieghe in cui ristagnano le ambiguità e le contraddizioni che portano l’uomo a una condizione d’impasse. In un’inquadratura emblematica, Massimo, poco dopo aver scoperto cosa cela l’interrato, si affaccia alla vetrata della sua camera da letto. Il riflesso dell’esterno si staglia sulla superficie lucida e seziona il personaggio impressionandone le inquietudini: la fronte è segnata dalle fronde degli alberi, gli occhi sono incorniciati dalle linee di una piscina piena d’acqua verdastra e, pian piano che la ripresa si abbassa, i rami contorti di un albero paiono stringere in una morsa lo stomaco del protagonista. La macchina da presa è posta all’esterno dell’abitazione, ma il sonoro permette di sentire i respiri, il deglutire di Massimo e il dialogo tra lui e la moglie-immagine, come se lo spettatore fosse all’interno della camera da letto.
La relazione tra interno ed esterno è centrale per il quadro grottesco che i registi cercano di delineare, in cui la fragilità del protagonista è schermata da una tenerezza così ostentata da diventare nauseante. A un certo punto nel film si assiste a una colazione a base di dolciumi, con una crostata fumante che sembra uscita da una striscia a fumetti, avvolta da un’aura fiabesca e sinistra allo stesso tempo, perché tutto quello che c’è sul tavolo è laccato da una patina così zuccherosa da sembrare immangiabile. Massimo e le sue tre donne di casa s’ingozzano e la scena si chiude con il protagonista che vomita la pietanza, simbolo di un idillio familiare in realtà inesistente.
La violenza prima della lettera
Si tratteggia così un uomo terrorizzato dalle sue debolezze, che tenta di sembrare forte corazzandosi nell’illusione della realizzazione borghese, per cui le donne, quasi divinizzate, cercano di sopperire a questa “mancanza di spina dorsale” accudendolo e rassicurandolo. Una mancanza sottolineata dai personaggi maschili – il padre su tutti – che circondano Massimo, soggetto a continue stoccate che minano l’identità maschile forte con cui vorrebbe far combaciare la sua silhouette. Ed è proprio nel farsi cullare dalle donne, in questo loro dovere di assistenza, che Massimo, seppur passivamente, fa emergere un desiderio di rivalsa maschile a dir poco misogino.
Ciò che più colpisce qui è che la scrittura emerge come un pieno generato per sopperire a una perdita, un vuoto-rimozione. Massimo non vuole mostrificarsi, non può accettare la sua vera natura e quindi deve improvvisarsi detective e imbastire un’indagine-racconto per trovare un colpevole che in realtà è scritto in lui. Ma già ne La terra dell’abbastanza c’era questo tema. Nel film d’esordio il processo di ri-assettamento pare cancellare un atto di violenza posto all’origine: il fatto di aver investito accidentalmente un uomo e nascosto l’accaduto. Nel momento in cui i ragazzi vengono reclutati nel clan il loro errore si deforma: nella loro narrazione sembrano aver assolto a una volontà superiore. Mentre in Favolacce, la scrittura era scatenata per compensare l’assenza di un dialogo tra bambini e adulti.
Nella loro ultima fatica, Dostoevskij, i due cineasti si misurano con il più prototipico dei plot: un poliziotto deve stanare un serial-killer che lascia delle inquietanti lettere sulle scene del delitto. La lunghezza e la verbosità di questi scritti fa soprannominare l’assassino con il nome del celebre scrittore russo. Ad ogni perdita di vita corrisponde un pieno di parole. La stasi marcescente del cadavere è compensata dal vitale movimento del testo nel dispiegarsi del tempo. Qui la scrittura diventa una violenza primigenia, costitutiva.
La ricerca dei modelli
C’è un momento all’inizio dell’opera dove il protagonista Enzo Vitello introduce alle indagini un nuovo poliziotto. Il detective conclude la sua esposizione delineando il profilo del killer dicendo ‘ecco la caricatura che stiamo inseguendo’. Questa battuta è emblematica perché durante la visione si ha la continua sensazione che l’opera cerchi di riproporre, ripercorrere continuamente dei modelli, i quali si possono trovare nei film di David Fincher, in True Detective o nei gialli di Dario Argento, per citarne alcuni. Così Dostoevskij può apparire come una sequela accroccata di cliché e deja-vù già incontrati in decine di altri prodotti audiovisivi. Ma la cosa interessante è che proprio il cliché sembra essere il punto sul quale i due registi si vogliono soffermare.
Una scena banale come quella dell’investigatore che osserva un muro tappezzato di fotografie, reperti e documenti per farsi un’idea sul caso diventa, per esempio, il pretesto per un montage onirico dalle vibes mekasiane di immagini-ricordo. Così come le lettere del killer vengono usate per sospendere la narrazione con exploit verbosi e digressioni, parentesi poetiche. Si può dire che in Dostoevskij, il cliché divenga l’occasione privilegiata per scatenare il gesto d’arte. Questo ‘inseguire una caricatura’ denuncia la tessitura di una trama, rendendo evidente la presenza di una scrittura-artificio. Si crea così una sorta di doppia scrittura, quella del film in sé e quella in cui i personaggi, come sempre, tendono a inscriversi.
Scrittura e maschere nude
Come si è visto i personaggi dei fratelli D’Innocenzo tendono a mascherarsi. Di solito il film si conclude quando il ruolo cui tentano di rifarsi viene rivelato, esaurendosi. Ne La terra dell’abbastanza, uno dei protagonisti si suicida dopo aver commesso un omicidio per il clan, mentre il suo amico viene freddato davanti alla stazione di polizia perché voleva denunciare l’accaduto. Insomma, i due ragazzi muoiono appena diventati dei gangster tout court e preso coscienza delle loro azioni. Anche America Latina si ferma-conclude nel momento in cui la proiezione mentale del protagonista viene smascherata.
In Dostoevskij si va oltre l’esaurimento. Il protagonista incapace di risolversi in un’identità propria diventa un attore che switcha da un ruolo a un altro, in maniera a dir poco pirandelliana. Enzo Vitello, poliziotto frustrato e pedofilo latente, tramite le vesti di detective si è autoimposto e sottoposto a tutto il rigore morale che comporta indossare questi abiti. Più lui va avanti nelle indagini, più questo rigido completo di decenza comincia a stargli stretto, arriva così a conoscere le lettere del killer a memoria, a stanarlo e ucciderlo da solo e infine a sostituirlo nel commettere gli omicidi. Questo personaggio si sottopone a uno sradicamento continuo, proprio perché non vuole sapere chi è veramente e dove possano ancorare le sue radici.
La scrittura mentale o testuale si riduce così a significante di significante, ad un abito senza corpo, a forma senza concetto, rendendo impossibile arrivare così all’origine, alla radice del significato della verità. La scrittura nei lavori dei fratelli D’Innocenzo esplica in maniera definitiva questa ricerca dello sradicamento, che diventa emancipazione dai padri, dalla periferia e da tutto ciò che risulta inaccettabile, indigeribile. ♦︎
Illustrazione di Giovanni Gastaldi