Spalla fondamentale, leader gentile, cantore canadese della storia americana. A un mese esatto dalla sua morte, ripercorriamo lo straordinario contributo di un artista lontano dai riflettori che ha cambiato la storia della musica restando un passo indietro
Lo scorso 9 agosto Robbie Robertson, cantautore e chitarrista canadese, è morto all’età di 80 anni. L’annuncio via social ha provocato un’ondata di affetto e cordoglio da parte non solo dei fan, ma anche dai tanti che, nei sessant’anni di carriera di Robertson, ne hanno incrociato la strada – e la chitarra. In primis Bob Dylan, con cui il musicista ha condiviso gli anni di maggior successo, e poi Eric Clapton, Ronnie Wood, Carole King, Ringo Starr, il regista Martin Scorsese e molti altri ancora, tutti uniti nel rendere omaggio a un testimone privilegiato – Testimony infatti il titolo della sua autobiografia, uscita nel 2016 – della più bella stagionenella storia della musica mondiale.
Come spesso capita quando un gigante della statura di Robbie Robertson se ne va, questa mesta ricorrenza ha spinto me – e credo un po’ tutti gli aficionados – a riascoltare in loop i brani più rappresentativi della sua produzione, un po’ per celebrare la memoria del defunto, un po’ per esorcizzare la perdita attraverso il patrimonio musicale lasciatoci in eredità. Nel caso specifico di Robertson, canzoni – parole e musica – della più alta cifra.
Gli esordi
Robbie Robertson nasce a Toronto nel 1943 da padre ebreo (mai conosciuto) e madre nativa americana. I suoi anni di formazione trascorrono tra avventurose estati passate nella riserva indiana Six Nations del Grand River e musica, ovviamente, il grande amore della sua vita. Per lei lascerà la scuola e a lei dedicherà la sua intera esistenza. Siamo all’inizio degli anni Sessanta: deciso a emulare al meglio l’idolo Buddy Holly, Robertson imbraccia la chitarra per non lasciarla mai più. Il suo talento lo porta a entrare, appena sedicenne, nella band di supporto di Ronnie Hawkins, energico cantautore rockabilly, soprannominato ‘the Hawk’ (il Falco) per il potente urlo che ne caratterizzava il modo di cantare. Oltre a essere stato un mentore essenziale durante gli anni di gavetta in giro per locali del Delta Blues, è proprio Hawkins a combinare il fortunato incontro tra Robertson e un giovane Levon Helm, suo batterista dell’epoca. L’istantanea sintonia tra i due pone le basi per il successo futuro. Con l’aggiunta poi di Rick Danko al basso, Richard Manuel al piano e Garth Hudson all’organo, la squadra è al completo. Suonano con the Hawk ancora per un po’, ma il connubio di quei talenti, troppo grandi per restare relegati, li conduce naturalmente ad allargare gli orizzonti. Ed è qui che entra in gioco Bob Dylan.
A supporto di Dylan
Nel controverso ‘electric switch’ del primo Dylan rock, gran parte del merito per quello che si dimostrerà poi essere un sound vincente, va attribuito proprio a Robertson e compagni, ingaggiati dal cantautore come band d’accompagnamento nei tour tra 1965 e ‘67. Da questa collaborazione benefici entrambe le parti ne traggono benefici: Bob Dylan ebbe il giusto sostegno musicale nelle esibizioni dal vivo e i membri della Band – in particolar modo Robertson – acquisiscono maggior dimestichezza nella scrittura dei testi, che di lì a poco sarebbe stata fondamentale per l’emancipazione del gruppo.
Semplicemente The Band
Al movimentato ’68 risale l’upgrade che vede Robertson & Co. passare da gruppo di supporto a formazione indipendente. Dopo un periodo di tempo di convivenza creativa passato in una grande casa rosa nella periferia di New York – nel cui seminterrato avevano registrato assieme a Dylan anche le caotiche e splendide Basement Tapes – vede la luce Music from the Big Pink, album d’esordio del gruppo, che decise di mantenere il generico – quanto antonomastico – nome con cui erano stati presentati sui manifesti dei tour con Bob Dylan: The Band, semplicemente.
Fin da questi primi lavori, lo stile musicale della Band emerge inconfondibile: l’autonomia appena conquistata permette alle molteplici doti di ognuno di brillare al meglio, mettendo in luce anche le abilità di polistrumentisti dei vari membri: il mandolino di Helm, il violino di Danko, il sassofono e la fisarmonica di Hudson. La parte vocale è divisa maggiormente tra pianista, bassista e batterista, ma anche Robertson contribuisce con cori e controcanti. Il risultato è quindi un amalgama di sonorità inaspettate, che spaziano dal più grezzo roots rock, al country della tradizione, fino al folk più verboso e a suoni di provenienza più ‘black’ come il soul e il gospel. Più che una band, può davvero essere definita una piccola orchestra acustica grazie a questa polifonia che caratterizzerà poi ogni produzione del gruppo. Le vendite dei primi due album non sono ottime, ma critica e colleghi musicisti del calibro di George Harrison e Eric Clapton intuiscono subito il potenziale innovativo della Band. Con un endorsement del genere, il successo non tarda ad arrivare: il pubblico, che aveva avuto solo un assaggio dato dalla collaborazione con Dylan, accoglie con curiosità benevola quella band apparentemente senza nome. La definitiva consacrazione avviene l’anno successivo, con la partecipazione sia a Woodstock che al Festival dell’Isola di Wight, i due palchi più leggendari nella storia della musica.
L’America secondo Robbie
È per certi versi paradossale quanto la musica e le parole di Robbie Robertson negli anni della sua militanza nella Band abbiano saputo raccontare spaccati dell’America più profonda e autentica, nonostante lui e i suoi compagni di avventure fossero tutti nati e cresciuti – a parte Levon Helm, originario di un paesino dell’Arkansas – in Canada. Probabilmente è la conferma della teoria per cui bisogna essere un passo fuori dal fulcro degli eventi per poterne avere una visione d’insieme, un punto di vista originale e differente. Quello di Robertson lo è stata senza dubbio, espressa attraverso una voce autoriale sempre un po’ al di sopra dello standard del cantautorato medio dell’epoca. Più lirica e complessa, la sua scrittura era ricca di immagini e simbolismi, che spaziano dalla storia degli Stati Uniti – come l’indimenticabile The Night They Drove the Old Dixie Down (1969), lamento di un soldato sudista prostrato dalle battute finali della Guerra di Secessione: brano reso ancora più celebre dalla cover del ‘71 cantata dall’usignolo del folk, Joan Baez, e inserita nel più recente lungometraggio da Oscar Tre manifesti a Ebbing, Missouri – alla sfera più spirituale, legata a quel folklore variopinto che va dai predicatori itineranti ai medicine show degli Stati del Sud. Impossibile qui non citare The Weight, capolavoro assoluto della penna di Robertson, che la Band inserisce nell’album d’esordio Music from Big Pink del ’68, stabilendo fin da subito un canone nuovo e identificativo. Il brano, la cui esegesi è ancora oggi non del tutto chiara, è una sorta di poemetto gospel (da brividi infatti la versione live eseguita dalla Band assieme alle voci del quintetto soul The Staples nel 1976), intriso di riferimenti biblici nel susseguirsi delle scene di una criptica Via Crucis in cui il protagonista s’imbatte in una serie di insoliti personaggi.
L’Ultimo Valzer
Al 1976 risale anche quella che è universalmente riconosciuta come l’acme della Band di Robertson, che malinconicamente corrisponde però anche alla sua fine. Provato dallo stile di vita sfrenato che ha caratterizzato le tournée e dai malumori intestini tra i membri del gruppo, il chitarrista decide di porre finealla Band. Lo fa con un grande concerto-evento organizzato dal gruppo per dire addio in pompa magna, prima del definitivo scioglimento. è una festa, più che un addio: un funerale in stile New Orleans, in cui i fortunatissimi spettatori della ‘baroccheggiante‘ Winterland Arena di San Francisco vengono letteralmente ‘sepolti dalla musica’ di Robertson & Co., accompagnati da una passerella di nomi illustri del panorama musicale dell’epoca – Clapton, Van Morrison, Ringo Starr, Muddy Waters, Joni Mitchell, Neil Young, Bob Dylan, giusto per citarne alcuni. Un giovane Martin Scorsese riprende l’evento e, corredandolo di interviste e backstage, lo presenta a Cannes due anni dopo col titolo di The Last Waltz: verrà consacrato dalla critica come uno dei rockumentary migliori di sempre.
Dopo la Band: solo album e colonne sonore
Salutato il gruppo, la carriera di Robertson da quel momento si è dipanata in due direzioni: quella di solista, ovviamente, con diversi album, come l’omonimo Robbie Robertson (1987), Music for the Natives Americans del 1994, fino all’ultimo Sinematic, uscito nel 2019; e come curatore di musiche per il grande schermo. Particolarmente proficuo il sodalizio con il già citato Scorsese, con cui ha lavorato per pellicole di enorme successo come Toro Scatenato (1980), Casinò (1995), Gangs of New York (2002), The Departed (2006), Shutter Island (2009), The Wolf of Wall Street (2013), The Irishman (2019).
Uscita di scena
Nonostante la sua dipartita, Robbie Robertson ci lascia ancora un’opera inedita da scoprire: è sua infatti la firma della colonna sonora di The killers of the Flowers Moon, ultimo film dell’amico di sempre Martin Scorsese, già presentato in anteprima al Festival di Cannes – dove è stato accolto con fervore nonostante una durata di ben quattro ore – e in uscita nelle sale italiane il 19 ottobre. L’opera testamento di Robbie risuonerà così in tutti i cinema del mondo, per la gioia di chi riconoscerà il tocco gentile e deciso della sue corde, ma anche per chi, scoprendolo per la prima volta, ne resterà incantato e magari, tornando a casa, cercherà il suo nome su Spotify o su You Tube. Così Robbie Robertson – e tutti i grandi artisti alla sua stregua – continuerà a vivere, perché può anche essere l’ultimo valzer con lui, «ma non significa che il ballo sia finito».
Illustrazione di Cristina Maggio