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Nell’adattare per il grande schermo il romanzo di Alasdair Gray, Lanthimos compie un’irriverente operazione di mash-up: quella di suturare la storia del mostro di Frankenstein con l’impianto tipico del racconto di formazione. Il Dottor Godwin (Willem Dafoe) riporta in vita una donna incinta morta suicida, sostituendole il cervello con quello del bambino che teneva in grembo. Il risultato del grandguignolesco esperimento è Bella Baxter (Emma Stone), una bambinona costretta alla segregazione nel castello dello scienziato, affinché lui possa studiarne i meccanismi di apprendimento. Ma ben presto questa povera creatura, desiderosa di vedere e scoprire il mondo, fugge con l’avvocato playboy Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), imbarcandosi in un lungo viaggio alla ricerca del tempo perduto. Ne esce fuori Povere creature!, un grottesco pastiche kitsch, steampunk e surrealista che, pur evocando Hesse, Balzac e Proust, s’incanala perfettamente nella filmografia del regista greco, da sempre ossessionato dal sondare nuclei famigliari e coppie fuori asse.

L’Occhio e lo Spettatore

Fin da subito, Lanthimos pone al centro della narrazione la dicotomia tra soggetto e oggetto, che esemplifica, organicizzandola, il rapporto dello spettatore con l’esperienza filmica. Lo scambio di cervelli che innesca la vicenda è, in maniera emblematica, un’immagine-transfert dei processi con cui il pubblico viene accompagnato ad immergersi nella finzione cinematografica. La cosa più interessante e drammaticamente perversa è che questo ‘nuovo’ cervello, pronto a esperire una rinnovata esistenza in un corpo altro, fosse in realtà già ospite del corpo stesso. Opera e utente coabitano lo stesso involucro, ma perché il dialogo funzioni queste due entità, frattalmente contenute una dentro l’altra ma separate in camere stagne, devono fondersi insieme, per annullarsi nell’amalgama disgregatore della morte. La condizione dello spettatore si riduce a vita assottigliata e sbiadita di un ego da cui l’occhio si distacca e che nel frattempo scema a nient’altro.

L’occhio disincarnato e lo spettatore sono tutto quello che rimane di chi è morto entrando nella sala cinematografica. Il personaggio di Bella, in questo senso, diventa un vero e proprio Caronte pronto a traghettare il fruitore della proiezione verso nuovi sguardi e realtà percettive, dislocate in spazi e tempi alternativi. Come la protagonista deve imparare a parlare, a fare l’amore e a distinguere il bene dal male, anche l’astante deve ricominciare la sua vita da zero. Così l’oggetto-film diventa per l’uomo mezzo di appropriazione della realtà attraverso l’esperienza soggettiva della presa di coscienza. Si ritorna all’essenza fondamentale del cinema, che risiede nell’esigenza umana della ricerca del tempo, di quello perduto o di quello che ancora non è stato possibile trovare.

Lanthimos all’orizzonte

Perché questo tentativo di recherche riesca è fondamentale compiere un disperato atto di fede, un salto nel vuoto verso un programmatico auto-annientamento di sé per riprendere, paradossalmente, possesso del mondo. Insomma, l’unica maniera di godere e disporre veramente di qualcosa è quella di disintegrarsi, schiantarsi in essa. Non a caso Bella, nella sua ‘vita precedente’, si suicida buttandosi da un parapetto. Nella caduta la sua figura traccia un’intensa linea verticale, mentre le sue membra si sfracellano ‘orizzontalmente’ nelle onde del mare. L’orizzontalità è onnipresente nel film e suggerisce una vicinanza maggiore non solo alla natura, ma anche alla dimensione misteriosa della morte, esprimendo, in ultimo, un anelito faustiano verso l’imperscrutabilità della vita.

Quando Bella viene portata fuori dal castello per la prima volta, palesa la sua felicità gettandosi al suolo a pancia in su e ‘mescolandosi’ con le foglie secche sul terreno. Il viaggio della protagonista si svolge, vettorialmente parlando, lungo una linea orizzontale: lei si sposta in carrozza, in auto o in barca. Ed è interessante notare che in molte sequenze in esterni il cielo risulti infuocato, come sospeso tra un perenne albeggiare o un eterno tramonto, perpetuamente fossilizzato sulla soglia dell’asse delle ascisse. Sovente si vedono i personaggi giacere in posizione supina per dormire o riposarsi: si pensi a Bella e Duncan nelle loro innumerevoli scene post-coito. Oppure alle ricorrenti immagini dei cadaveri stesi sul lettino da chirurgo per essere studiati ed esaminati dal Dottor Godwin.  

Fotogramma di Povere creature! © 2023 Yorgos Lanthimos/Element Pictures, Film4, Fruit Tree

L’informe

Il dormire e il morire si confondono, così come la retta che separa cielo e mare risulta sempre più sbiadita. L’orizzontalità tende all’ambiguità e alla mescolanza, aprendosi alla cancellazione di confini e alla deterritorializzazione raggiungendo, di conseguenza, la sconfitta della forma. Povere creature! in questo suo voler essere amorfo dà vita a un universo simulacrale dove l’architettura vittoriana, il liberty, l’espressionismo e lo steampunk si disciolgono in un magma allucinante per riplasmare città come Lisbona, Parigi o Londra visitate dalla giovane Baxter. Ciò contribuisce a creare una vera e propria estetica dell’informe e del non-definito, dispiegandosi come presupposto e principio primo della fluidità identitaria che contraddistingue la protagonista. Bella, nel suo continuo stare in equilibrio sulla linea del sonno eterno, affronta le esperienze più disparate e aderisce a idee e codici morali più diversi.

L’etica, in tutte le sue diverse scuole, declinazioni e concezioni, diventa un immenso guardaroba di abiti usa e getta che la giovane Frankenstein può switchare a proprio piacimento, se non spogliarsene del tutto. Come la platea del multisala, dove il pubblico può traslarsi in avatar-cinematografici portatori di sguardi, di volta in volta, differenti. Con Povere creature!, il cinema diventa uno specchio dove lo spettatore può continuamente riflettersi senza vedersi mai, cercarsi per sempre libero dal terrore di potersi trovare e doversi definire, circoscriversi e fissarsi in un’immagine letale. Per Lanthimos, lo spazio-film diventa un interno nel quale ci si può muovere liberamente e rasentare, per fortuna, la non esistenza. ♦︎