Di solito, quando ci stiamo sistemando comodi sul divano per vedere un film o iniziare un libro e vediamo la scritta «basato su una storia vera», un mezzo brivido ci pervade. Si percepisce un po’ di tensione, ci facciamo un po’ più seri. Al contrario, «Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale », è la formula che ci libera da ogni impegno: si stringe un patto con noi spettatori, siamo disposti a credere a ciò che accadrà, ma se le cose si fanno crude, potremo sempre ripararci dietro un “tanto è finto”.

Joyce Carol Oates decide di cambiare le regole del gioco col suo romanzo Sorella, mio unico amore (2008): la nota inziale dell’autrice recita la formula della casualità degli eventi solo dopo aver accennato al fatto che il libro prende effettivamente ispirazione da «un autentico caso di cronaca nera tristemente noto, verificatosi nell’ultimo scorcio del Ventunesimo secolo».

La protagonista di Sorella, mio unico amore è la famiglia Rampike, ovvero il ritratto della famiglia ‘perfetta’ dell’America suburbana degli anni novanta: bianchi, ricchi, cristiani, due figli, una villa in stile coloniale, una domestica sudamericana. Il padre è un alto dirigente d’azienda, la madre tesse i fili delle relazioni sociali per entrare nel country club dal nome altisonante, e si dedica alla carriera della piccola Bliss, promessa del pattinaggio artistico di sei anni. Il narratore a cui Oates affida il romanzo è Skyler, fratello maggiore: il libro è infatti il diario di Skyler, un «sudato documento», il resoconto della disturbante tragedia che ha segnato i Rampike.

All’alba del 29 dicembre 1997, la madre di Bliss trova sul tavolino di ingresso di casa Rampike a Fair Hills, New Jersey, una sgrammaticata richiesta di riscatto lunga tre pagine, e poco dopo il corpo senza vita della bambina viene scoperto nel locale caldaia della villa di famiglia. Seguono un caso investigativo lacunoso, e un ancora più ambiguo processo giudiziario, che scongiura fin da subito la possibilità che la famiglia centri nella morte della bambina. Alla fine senza tante spiegazioni viene arrestato un uomo con precedenti di reati a sfondo sessuale, il «pedofilo locale».

È normale che un pubblico europeo non reagisca alla risonanza di questa sequenza di informazioni, che sembrano il frutto di una penna fantasiosa con un gusto per le tematiche macabre. Ma, negli Stati Uniti, questi sono stati gli elementi di un famosissimo evento di cronaca nera del 1996, inconfondibili alle orecchie di molti: il giorno di Natale di quell’anno, la reginetta di bellezza di sei anni JonBenet Ramsey è stata trovata morta nella cantina della sua casa a Boulder, Colorado. Come nel romanzo di Oates, prima del rinvenimento del corpo c’è stata la scoperta di una lunga lettera di riscatto da parte della madre di JonBenet, e dopo, la stessa leggerezza nelle indagini, la stessa difficoltà nell’individuare il colpevole.

Non farò spoiler del finale del libro di Oates, uno straziante resoconto del trauma indelebile che perseguita Skyler Rampike fino alla vita adulta, ma posso riflettere sul finale della storia vera, quella di JonBenet Ramsey.

Il colpevole dell’omicidio non è mai stato trovato, nonostante l’autoconfessione – rivelatasi poi frutto di un estro mitomane – di un insegnante con precedenti pedopornografici, e rimane nel 2024 un cold case, ovvero un delitto irrisolto. Le vicissitudini giudiziarie dell’ambigua posizione della famiglia Ramsey e speculazioni circa un loro coinvolgimento nel delitto sono state sui notiziari americani per molti anni, e il riflettore mediatico illuminava costantemente le immagini in ricordo della bambina assassinata. Sono proprio le sue fotografie, circolate pubblicamente insieme ai titoloni della tragedia, che offrono il gancio per la riflessione che menzionavo.

JonBenet era una reginetta di bellezza, e le immagini che la ritraggono hanno risvegliato il pubblico americano su un fenomeno di folklore di nicchia, un mondo che, forse senza di lei, sarebbe rimasto nell’anonimato: quello dei child beauty pageant, i concorsi di bellezza per bambini. Questi concorsi, nati negli Stati Uniti agli inizi del ventesimo secolo, erano inizialmente legati a festival locali: P.T. Barnum, il pioniere americano del circo – l’icona a cui è ispirato il film The Greatest Showman – organizzò la prima competizione per signore nel 1854. Thomas Edison scelse la Baby Parade del 1893 come soggetto di una delle primissime pellicole cinematografiche, e negli anni gli eventi si sono evoluti in gare strutturate, come il Better Baby Contest che ‘misurava’ il bambino ‘più in salute’. Dal 1961 al 1971 il contest Little Miss America radunò circa 6000 giovani competitori a settimana, e nel corso degli anni, vista l’altissima partecipazione e il fiuto degli imprenditori che volevano cavalcare l’onda, i concorsi di bellezza infantile hanno assunto una forma più competitiva e professionale, caratterizzata da una rigida preparazione dei partecipanti.

I child beauty pageants, come quelli a cui partecipava JonBenet, per seguono un insieme di regole e criteri che variano a seconda dell’organizzazione e dell’evento. I concorsi includono diverse categorie di competizione come abito da sera, talento, abito a tema. I partecipanti sono giudicati sull’aspetto fisico, il carisma sul palco, l’originalità dell’esibizione e l’abilità comunicativa durante le interviste.

Fotogramma di: Little Miss Sunshine © 2006 Jonathan Dayton e Valerie Faris/Fox Searchlight Pictures, Big Beach Films, Third Gear Productions LLC, Deep River Productions, Bona Fide Productions

L’altra verità sulle pageants sta proprio nello sviscerare la competitività, e vedere cosa c’è dentro: una cultura dove l’infanzia viene in qualche modo adultizzata, e i bambini sono incoraggiati a conformarsi a standard di bellezza e comportamento che sono spesso al di là della loro età e comprensione. Insieme al caso di JonBenet, Toddlers & Tiaras e Here Comes Honey Boo Boo, reality show – lanciati su un canale che potrebbe ricordare il nostro Real Time – che seguono la vita di una pageant family, ha sollevato il velo su questo mondo, rivelando non solo il livello di professionalità e impegno richiesto ai giovani concorrenti, ma anche l’intensa pressione e le aspettative poste su di loro dai genitori e dagli allenatori. Il programma ha esposto gli aspetti più controversi dei child beauty pageants, comprese le lunghe ore di preparazione, l’uso di trucco pesante, abiti costosi e persino false ciglia e dentiere per migliorare l’aspetto dei bambini, sollevando interrogativi sulla salute mentale e fisica di questi ultimi. Ipersessualizzazione precoce, oggettificazione infantile e costruzione di aspettative inarrivabili sono le critiche che sono costantemente mosse al mondo dei concorsi di bellezza, soprattutto quelli per minori: i bambini imparano che l’aspetto fisico è l’unica cosa che conta, arrivando a sviluppare, secondo diversi studi, disordini psicologici legati all’autostima e un atteggiamento ipercritico, con possibili conseguenze a lungo termine nella loro adolescenza e maturità.

Chi difende le competizioni mette in luce potenziali benefici, sostenendo che queste gare possono favorire un miglioramento nella socializzazione, l’edificazione dell’autostima e della determinazione. Argomentano che, quando gestiti in modo responsabile, i concorsi possano offrire una piattaforma per i bambini di esprimere il proprio talento, imparare il valore del duro lavoro e stabilire obiettivi personali.

La mia riflessione ha poi preso una piega diversa, più vicina in un certo senso, per quanto ‘vicino’ si possa percepire il mondo digitale, dove l’esposizione dei bambini non si limita più alle competizioni dal vivo. Non è inusuale che i genitori, qualunque genitore e non solo i genitori, documentino e condividano le esperienze dei figli sui social, in modo assolutamente candido, ma anche pericolosamente ingenuo, poiché ampliano in modo significativo la portata dell’attenzione pubblica. L’esposizione online può avere implicazioni indesiderate, anche se non ce ne rendiamo sempre conto: i profili e le immagini – quelle di tutti, ma dei minori in particolare – diventano accessibili al mondo e nel peggiore dei casi, alle attenzioni indesiderate di individui che non si limitano a commentarle.

P.S. per chi mi ha letto fino a qui.

Rileggendo questa conclusione l’ho percepita io stessa come un ammonimento un po’ aggressivo ma senza evidenze scientifiche, nè cura e tatto nel presentare l’argomento. Avrei dovuto trattenere il mio istinto di parlarne, nonostante mi frulli in testa da un po’: in questo pezzo centrava, ma non troppo. To be continued per un pezzo pensato ad hoc, che presenti questo fenomeno con l’attenzione che si merita. ♦︎

Sofia Calvo
Non so descrivermi perché non ho ancora ben capito chi sono, ma nel frattempo ho scoperto un paio di cose: che scrivere è l'unica cosa che mi soddisfa davvero, che amo i giochi di parole e i mercatini dell'usato, e che mi diverte intavolare discussioni facendo alle persone domande stupide, tipo "I serpenti hanno la coda?"

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