La vera ragione delle cose è invisibile, inafferrabile, indefinibile, indeterminabile. Penso che David Lynch, grande cineasta scomparso il 15 gennaio, sia stato uno dei pochi, o forse l’unico, in grado di comunicare questo perenne stato di imperscrutabilità in maniera così potente e drammatica. «Non ho idea di cosa sia la realtà. Sono certo che quando lo scoprirò ne rimarrò sorpreso», dichiarò il regista durante la conferenza stampa a Cannes in occasione della presentazione di Twin Peaks – Fuoco cammina con me.
Ricordo ancora in maniera vivida le sensazioni provate durante la prima visione di Eraserhead e Strade Perdute. Mi sentivo strano, sembrava che il mio respiro si facesse sempre più pesante e faticoso. Ogni volta che riempivo i polmoni di ossigeno, il petto si gonfiava e sentivo che la pelle, attaccata alle ossa, si tendeva fino ad arrivare a un passo dalla lacerazione. Quando espiravo, invece, avevo l’impressione che l’addome non si sgonfiasse mai del tutto, lo percepivo sempre leggermente più ingrossato di quanto non lo fosse nella precedente inspirazione. Per intenderci, la paranoia arrivò a un livello tale da farmi pensare che lo sterno si sarebbe gonfiato al punto da inglobare completamente la mia faccia. Avevo 14 o 15 anni all’epoca e non avevo mai provato un senso di fragilità così tangibile guardando un film. Ogni respiro sembrava prezioso e il cuore pareva dover ritornare al passo dopo aver subito un rallentamento bradicardico. La scoperta dei lavori di David Lynch fu accompagnata, inizialmente, da un profondo e quasi ancestrale terrore. Solo più avanti cominciai a rendermi conto di come dietro quelle visioni da incubo si celasse un brillante senso dell’umorismo.
Tralasciando le mie note di spettatore iper-soggettive, vorrei soffermarmi sul modo con cui questo regista ha deciso di affrontare la vita. Per l’autore la cosa più importante al mondo erano le idee. Esse erano viste da Lynch come piccole creature da scovare e che, una volta trovate, andavano messe sotto osservazione per un lungo periodo di tempo. Se le idee si fossero rivelate promettenti allora sarebbe stato bene accudirle e tentare di crescerle nel miglior modo possibile. Un’idea poteva giungere a maturazione solo se si rimaneva sempre e fermamente fedeli a essa. Questo pensiero, in apparenza ingenuo e che forse suona anche un po’ banale è in realtà difficilissimo da attuare in maniera pratica, trasformarlo cioè in un vero e proprio approccio al quotidiano. Infatti Lynch, per affacciarsi nella maniera più sincera possibile a questo processo, era dedito alla meditazione trascendentale. Quest’esercizio era parte integrante delle sue giornate e dava al cineasta la possibilità di immergersi profondamente nella propria coscienza.
Lynch e l’allestimento degli incidenti
Nel suo libro, In acque profonde, il regista riporta un aneddoto dove spiega com’è nato l’iconico Killer Bob di Twin Peaks interpretato da Frank Silva. Questo breve racconto esplica in maniera emblematica il suo rapporto con le idee:
Le idee arrivano nei modi più impensati, basta tenere gli occhi aperti. Qualche volta sul set capitano dei piccoli incidenti che mettono in moto l’immaginazione. Durante le riprese dell’episodio pilota de I segreti di Twin Peaks, nella nostra troupe c’era un arredatore di nome Frank Silva. Mai e poi mai mi sarebbe dovuto comparire nella serie. Mentre giravamo alcune scene nella casa di Laura Palmer, Frank stava spostando dei mobili nella camera da letto della ragazza. Io mi trovavo nell’ingresso, sotto un ventilatore a soffitto. Una donna disse “Frank, non spostare il cassettone davanti alla porta in quel modo. Non chiuderti dentro”. Ebbi così una visione di Frank nella stanza. Lo raggiunsi di corsa e gli domandai: “Sei un attore?”. Rispose “Guarda caso sì”, perché a Los Angeles sono tutti attori. Forse al mondo lo sono tutti. Così dissi: “Frank, in questa scena ci sarai tu”. Girammo tre panoramiche della camera, due senza e una con Frank accucciato e immobile ai piedi del letto. Non avevo idea però di che cosa significasse o a che cosa servisse questa scena. Di sera, scesi al piano inferiore, stavamo girando la scena in cui la madre di Laura Palmer è sdraiata sul divano. Annientata dal dolore e dalla disperazione. Improvvisamente, vede qualcosa con l’occhio della mente e scatta a sedere di colpo, urlando. Sean, il cineoperatore, doveva manovrare la cinepresa e seguire il volto della donna mentre si alzava all’improvviso. Mi parve che avesse fatto un ottimo lavoro. Così dissi “Stop! Perfetto, stupendo!”. Sean dissentì: “No, per niente”.
“Perché?”.
“C’era qualcuno riflesso nello specchio”.
“Chi?”
“Frank”.
Sono incidenti che capitano e mettono in moto l’immaginazione.
D. Lynch, In acque profonde, Mondadori 2019, p. 89-90
Per Lynch girare un film era una questione di intuito; per molti versi un esperimento, dove bisognava essere in grado di capire da soli quando una cosa era eccessiva oppure perfetta. Il problema stava nel saper imboccare la strada giusta e approfittare degli incidenti. Anzi, bisognava saper allestire una situazione in cui essi potessero verificarsi, in modo che, quando si fosse tradotta un’idea in espressione, quest’ultima sarebbe diventata ricca di significato. Quest’attitudine esce fuori soprattutto nell’ultimo lungometraggio di Lynch, Inland Empire, dove la sceneggiatura è stata scritta giorno per giorno, durante lo svolgersi delle riprese. Questa modalità di lavorazione ha dato luogo a un film-formante, misterioso e labirintico, condizionato da una visione cangiante e perennemente in divenire.
L’impero della mente
In Lynch, nel suo atteggiamento nei confronti di eventi o forze che in apparenza gli si oppongono, riecheggia la figura del saggio orientale. Secondo questa filosofia misticheggiante, la vita è il presupposto di tutta una serie di problemi o incidenti. Non si può auspicare un’esistenza senza di essi, perché questa non sarebbe altro che il corrispettivo della morte. Bensì si deve andare addosso ai problemi e accoglierli con il placido sorriso di chi sa che fanno parte del gioco. E proprio come in un gioco lo scopo è raggiungibile solo tramite la risoluzione di problematiche più o meno complesse, così un’esistenza giunge alla realizzazione nella misura in cui è votata allo scioglimento di certi nodi spinosi. Se il problema o l’incidente sono un assunto, il confronto con essi è la regola. Solo così sarà possibile stabilirsi saldamente in uno stato di quiete e raggiungere quella perfetta semplicità che può essere afferrata solo nella più profonda contemplazione di sé. Ciò significa ritornare alla propria radice, al principio che è origine prima e insieme fine ultimo di tutti gli esseri.
Questo vuol dire non solo entrare nello stato di quiete, ma anche in quella pace del vuoto che è, per il mistico, una condizione indefinibile. L’uomo assolutamente semplice soggioga con la sua semplicità tutti gli esseri al punto che nulla gli si oppone, nulla gli è ostile, il fuoco e l’acqua non gli recano danno. Poiché egli non si oppone a nulla, nulla può a sua volta opporsi a lui. Infatti l’opposizione è un rapporto reciproco, che esige la presenza di due termini di cui l’ostilità è soltanto una conseguenza o una manifestazione esteriore, la quale non può sussistere nei confronti di un essere che sia al di fuori e al di là di ogni opposizione. Il fuoco e l’acqua, che sono il modello dei contrari, non possono recar danno a un individuo del genere, perché essi per lui non esistono nemmeno più come coppia di opposti. Per Lynch, come per il mistico, questi due poli sono rientrati, equilibrandosi e neutralizzandosi reciprocamente nella riunificazione delle loro qualità in apparenza contrarie, nell’indifferenziazione dell’etere. Il regista, ponendosi di fronte a questo panorama informe, abissale e virginale, con la pazienza dell’iniziato alla via dell’esoterismo, attende che le idee emergano e si lascino osservare.

In acque profonde
Chiudo riportando un breve estratto di un’intervista del 1992 rilasciata da David Lynch alla giornalista Kristine McKenna. Mi pare che queste poche righe tratteggino e delineino in maniera ancora più efficace il ritratto che fino ad ora si è tentato di abbozzare.
Perché cerchiamo di trovare un significato alla vita? Perché è tanto difficile accettare la possibilità che l’esistenza possa essere priva di senso?
Perché al mondo ci sono così tanti indizi da creare una sensazione di mistero, e ciò significa che c’è un enigma da risolvere. E una volta che si inizia a ragionare in questi termini, ci si accanisce a cercare un probabile significato, e nella vita ci sono molte strade in cui sembra di trovare piccole indicazioni del fatto che un giorno il mistero si potrà risolvere. Rinveniamo delle piccole prove – non la prova definitiva – ma solo le piccole prove che ci spingono a continuare la ricerca.
E quale sarebbe la prova definitiva?
Una totale beatitudine della coscienza.
Cosa credi che accada dopo la morte?
È come andare a dormire dopo un giorno di intensa attività. Nel sonno accadono molte cose, poi ci si sveglia e c’è un altro giorno di attività, per come la vedo io. Non so esattamente dove si va, ma ho sentito delle storie su quello che succede, e non c’è dubbio che quella di morire sia la paura più grande. Non sappiamo nemmeno quanto ci si metta a morire. Se uno smette di respirare sta ancora morendo? Come facciamo a sapere quando ha finito e lo si può portare via? Le religioni orientali dicono che all’anima servono alcuni giorni per uscire dal corpo, e ho sentito che è un processo doloroso. Devi sfilarti, per così dire, della tua esistenza terrena. È come togliere il nocciolo a una pesca acerba.
D. Lynch, Perdersi è un sogno. Interviste sul cinema, Minimum fax 2017, p.203-217.