DA CALVINO ALLA VITA REALE, BASTA PASSARE PER LE “CITTÀ INVISIBILI”
L’animo umano è senza dubbio perfetto. Congegnato in maniera tale da non essere attaccabile dall’uomo e da auto-proteggersi. L’animo deve essere preservato, e della sua solidità ne fa un vanto, una lode. Ma si da il caso che l’animo umano sia corrotto, nel corso dello scorrere degli anni e della vita dell’uomo su questo difficile mondo. La corazza che egli si è costruito attorno a se è utile certo, ma non infallibile, non è ineluttabile. L’esoscheletro che l’uomo assume è quella della rabbia, della paura. Del silenzio e del rumore, dell’estrema certezza coronata dalle incertezze. L’uomo sa che cosa desidera, cosa brama, ma al contempo è infelice, incompreso e stufo.
Egli è come un tronco, un tronco solido e risoluto. Ma che nella sua robustezza nasconde qualcosa. Cela il fatto che il suo cuore è stato mangiato dalle termiti, è stato rosicchiato dalla base alla cima, e il morbo si espande, dilaga senza controllo. L’albero è perduto se anche solo una di quelle insulse bestie attacca con furore, portandosi appresso molte altre creature a lei simili.
La nostra terra è nella stessa situazione. Sta lentamente trasformandosi in un groviera, a causa della infelicità dell’uomo e della sua avidità. Nelle vene di quest’ ultimo scorre petrolio e denaro, ma nonostante tutto sono ancora infelici e incompresi. A loro manca la semplicità, mancano le piccole cose che non siano coronate solo dalla fama e dalla ricchezza. Il loro animo si è incrinato e allora per compensare questa stortura cercano disperatamente conforto nel materiale, non rendendosi conto però che così facendo aumentano l’arco, in maniera irreversibile.
Un giorno presi la metro all’altezza della fermata Armilla. Salii sulla metro, immerso in un fiume di gente. Tutti se ne stavano nel loro piccolo tronco, attaccati dalle termiti, attaccati dalla rabbia, dalla frustrazione e dalla paura. Un signore distinto mi passò davanti. Perdeva segatura dal risvoltino dei pantaloni, e dalle maniche scendeva una sottile polvere, di come quando si sega un pezzo di legno. La cravatta era tutta forellata. La sua anima era in pericolo, troppa fame di denaro, troppa ambizione lo stavano logorando. Vidi una donna, alta ed elegante. Se ne stava seduta, con il cappello a tesa larga che le si sfaldava sopra il viso, scoprendole sempre di più il volto. Il tacco delle scarpe era ormai inutilizzabile. La borsa era quasi tutta forata, come le retine che si usano al mare.
La metro era piena di segatura, era difficile camminarvi senza riempirsi le scarpe, se ce le avevi ancora. Successe qualcosa di inaspettato. Salì sul vagone un signore, sulla cinquantina. Aveva dei radi capelli brizzolati, e un completo scuro, guanti tagliati per lasciar scoperte le dita e un gran sorriso in volto. Al petto portava appesa una fisarmonica, tutta bianca. Era bellissima e allo stesso tempo triste. Sul lato vi era incisa la parola “libertà”, a caratteri neri sulla lacca bianca dello strumento. Il signore si chiamava Vlad, e presentandosi chiese di potersi esibire per noi, pubblico presente. Senza repliche iniziò un dolce valzer.
La musica era fortissima, e non sembrava possibile che uscisse da quell’aggeggio. Eppure era così, ma la cosa più strabiliante consisteva nel musicista. Era perfetto. Non aveva neanche un foro, ne un po’ di segatura. Era intatto e si era cacciato nella tana delle tarme. La “Libertà” suonava e colpiva in faccia i presenti. Con sonori schiaffi, il signor Vlad ci stava cercando di liberare della nostra condizione di appestati, dipendenti dal lavoro, fama e desiderio. Il terremoto che scosse Armilla e che la ridusse a una città di sole tubature era questo? Era forse un Signore armato di Fisarmonica, che andava avanti a colpi di valzer. Qualcuno non ascoltò la chiamata e il processo di digestione sembrò aumentare esponenzialmente. Chi si mostrava indifferente alla libertà, anzi la ignorava ne sarebbe stato succube. Il signor Vladimir dopo essersi esibito iniziò a camminare verso il vagone successivo. La sua libertà era così potente da pulire la strada al suo passaggio. Egli era puro, usava le macerie degli altri come aria, per gridare loro che se non si fossero mossi le tarme avrebbero fatto il resto.
Le tarme al suo passaggio si fermarono. Le sentii piangere dentro di me, le sentii supplicare pietà. Erano in pasto alla Libertà. Corsi verso l’esterno. La fermata non era quella giusta, ma sarebbe andata bene per uscire da quell’incubo, da quel turbinio di segatura e di tarme assassine.
I palazzi non erano più palazzi, le case non c’erano più. Ero entrato nella stazione della metro lasciando alle mie spalle un determinato mondo, ed invece ora me ne ritrovo un altro. Le pareti non sono più tali, sono gabbie costituite dalle tubature che sono rimaste. Le termiti hanno mangiato tutto? Hanno divorato tutta la corruzione che a furia di essere sfruttata si era annidata in quei locali, andando ad innescare un circolo vizioso. Le città ora sono tutte come l’armilla in cui mi trovo? Il covo di avarizia, cattiveria e corruzione? Come possiamo estirpare le termiti da noi e da chi ci circonda?