Il linguaggio è importante: nominare un qualcosa da forma a quella cosa.
Il linguaggio è importante: le parole che scegliamo di usare formano il nostro pensiero e, di conseguenza, influenzano il nostro modo di vedere il mondo.
Facciamo un piccolo esperimento sociale. Andate su Google immagini e digitate la parola segretario. Cosa vedete? Figure professionali, segretari di partito, uomini di mezza età seduti alle scrivanie. Digitate invece segretaria e vi appariranno donne belle, giovani, che guardano dritte verso di voi, anche un po’ smaliziate. Se scorrete leggermente più in basso vedrete già pubblicità di porno o immagini con didascalia “segretaria sdraiata/ segretaria ben vestita”.
Ora proviamo con la parola dottore (sostantivo maschile) e vi usciranno in prevalenza uomini; digitate infermiere (sostantivo maschile) e vi usciranno in prevalenza donne (se digitate infermiera vi usciranno direttamente i vestitini sexy da carnevale).
L’italiano è una lingua viva e come tale è influenzata dalla nostra società: parole di uso comune come medico, sindaco, operaio, pilota siamo abituati a pensarle al maschile (se sentiamo dire frasi come lavora sodo come operaio, il sindaco guida i suoi cittadini, il pilota ha vinto la gara, d’istinto pensate a uomini o donne?), perché inoltre sono lavori tipicamente maschili e quindi, in questo caso, anche il contesto influisce (in fabbrica per concezione comune si immagina l’uomo, tanto quanto a pilotare un’auto in Formula1); il discorso infatti è lo stesso al femminile: segretaria, maestra, infermiera, domestica sono sostantivi che decliniamo in primis al femminile, essendo lavori che culturalmente attribuiamo alla donna. Solo che, in questo caso, la faccenda si complica: dire medica fa ridere, dire maestro al posto di maestra fa pensare ai grandi maestri d’orchestra, ai grandi luminari, mentre il femminile maestra non richiama la stessa autorevolezza. Il linguaggio, in una società patriarcale, riflette dei maschilismi non solo sulla lingua, sul parlato, ma anche su come pensiamo e viviamo l’altra persona. Questo perché il linguaggio forma la nostra realtà e, anche se sembra assurdo a pensarci così, su due piedi, queste differenze linguistiche contribuiscono a creare uno stereotipo di genere che fomenta l’idea che la maestra sia un lavoro da donna, mentre il direttore d’orchestra no. Dopo questa considerazione non posso che citare il caso, che ha fatto molto discutere, riguardo alla dichiarazione di Beatrice Venezi a Sanremo 2021: “Direttrice d’orchestra? No, meglio direttore”. In questo caso è evidente che, in quando direttrice d’orchestra, Severi ha preferito identificarsi con il maschile, proprio perché tradizionalmente chi dirige l’orchestra è nominato al maschile (ed ecco che la parola direttrice rimanda a quella immagina di zitella secca e inacidita, come una direttrice di istituto, vero?). Non è una colpa della Severi preferire il maschile al femminile, ma è interessante notare questa sua scelta, chiaro esempio di quanto sia forte l’idea che il femminile sminuisca.
Di seguito riporto alcune frasi estrapolate da un’intervista fatta a Laura Boldrini proprio sull’accaduto sopra discusso: “Più che una scelta individuale della direttrice d’orchestra Venezi, è la scelta grammaticale a prevalere e quella italiana ci dice che esiste un genere femminile e un genere maschile. A seconda di chi riveste il ruolo si fa la declinazione. Chi rifiuta questo lo fa per motivi culturali”, dice la deputata. Boldrini spiega che “la declinazione femminile la si accetta in certe mansioni come ‘contadina’, ‘operaia’ o ‘commessa’ e non la si accetta quando sale la scala sociale, pensando che il maschile sia più autorevole. Invece il femminile è bellissimo – dice la deputata del Pd – E’ un problema serio che dimostra poca autostima. Inviterei la direttrice Venezi a leggere cosa dice l’Accademia della Crusca, la più alta autorità linguistica del nostro paese. Se il femminile viene nascosto, si nascondono tanti sacrifici e sforzi fatti”.
Qui di seguito lascio il link dell’intera intervista: clicca qui.
Il linguaggio è importante: la lingua, quando è viva, cambia e muta in base alla società nella quale si trova. Il linguaggio è un codice che abbiamo costruito e che crea e comunica forme, oggetti e concetti.
Di conseguenza, si propone di usare un linguaggio inclusivo, tramite la creazione di neolinguismi, oppure utilizzando simboli come l’asterisco *, oppure la chiocciola @, oppure lettere definite di genere neutro come la U, oppure la Ə. Con linguaggio inclusivo si intende un linguaggio che non rifletta disparità di sesso/genere/etnia/religione/cultura dando a tutte queste differenti realtà la possibilità di esistere, nominando e quindi riconoscendo loro pari dignità linguistica.
Sarà questa la soluzione? Anche se riflette una scelta a volte forzata e meccanica di un nuovo uso del nostro linguaggio, in realtà potrebbe rappresentare un tentativo di trovare una nuova soluzione alla difficoltà crescente che avvertiamo in una lingua che, probabilmente, inizia a non rappresentare più adeguatamente la società nella quale viviamo. In italiano, come detto prima nell’intervista alla Boldrini, esistono un maschile e un femminile, chi rifiuta questo lo fa per motivi culturali: effettivamente il linguaggio inclusivo promulga una nuova cultura, quella intersezionale, dove si cerca di includere tutt*, senza discriminare nessuno.