Essere padroni del proprio racconto ai tempi dei Tabloid. Se Lady D avesse avuto i social, quanto diverso sarebbe potuto essere il suo destino?
L’ultima estate
È una Lady D rassegnata quella ritratta in una celebre fotografia scattata nell’estate del 1997, qualche settimana prima della sua morte. Indossa un costume intero, il mare la circonda. Un gabbiano vola alto sopra di lei. È la Diana seduta sul trampolino dello Jonikal, il megayacht di proprietà della famiglia Al-Fayed che la ospita per l’estate. È la Diana che si guarda alle spalle incerta, diffidente: Sarò sola o c’è qualcuno che mi sta guardando?
Effettivamente, qualcuno che la sta guardando, infrangendo il suo spazio privato ancora una volta, c’è: questa fotografia, scattata con un teleobiettivo da uno dei tanti paparazzi che durante quell’estate l’hanno inseguita per il Mediterraneo, ne è la prova. Diana alza la testa, il gabbiano vola via. Quanto avrebbe voluto essere lei quel gabbiano e sentirsi libera, sparire tra le nuvole senza essere notata: volare via dai paparazzi, però, non le è stato possibile la fatale notte del 31 agosto 1997.
«Quando incominciai la mia vita pubblica non immaginavo fino a che punto l’interesse dei media avrebbe invaso anche la mia vita privata» Era solo il 3 dicembre 1993, sembrava l’inizio della sua nuova vita. Diana pronunciò queste parole nel celebre discorso tenuto alla cena di beneficenza della Headway. Un passo indietro dagli incarichi pubblichi e, al contempo, un duro rimprovero alla stampa che non le aveva concesso la privacy necessaria a condurre una vita lontana dai riflettori. La vita che avrebbe voluto, una volta smesso di essere una figura pubblica.
La versione dei Tabloid
Ormai lo sappiamo. Gli anni ’90 sono stati il decennio per eccellenza dei Tabloid, giornali a basso costo con un solo scopo: divulgare gossip, fotografie di momenti privati e pettegolezzi accattivanti delle star di Hollywood; insomma, vendere tutto ciò che attirasse il pubblico senza alcuno scrupolo. E si dà il caso che Lady Diana, non una star di Hollywood ma un membro ufficiale della Royal Family, portatrice del titolo di Principessa del Galles, aveva un effetto magnetico sulle masse.
Raccontare e raccontarsi ai tempi dei Tabloid e della stampa intrusiva non è stato facile per nessuna celebrity, tanto più per Lady Diana Spencer, simbolo di un’era in cui i confini tra privato e pubblico si andavano assottigliando sempre di più. Anche dopo il divorzio e l’uscita dalla Royal Family, che le fece conquistare l’appoggio del pubblico e le conferì l’etichetta di ‘principessa ribelle’, le attenzioni della stampa nei suoi confronti non cessarono, anzi, si rivelarono morbose.
L’eterno conflitto: pubblico e privato
Che il coinvolgimento dei Tabloid fosse eccessivo fu chiaro a tutti fin dagli albori dell’entrata di Diana nella vita pubblica, nel 1980, quando ancora non era diventata la neo-consorte del Principe Carlo. Difficile dire che cosa attraesse di più di lei, ma non aveva importanza: Diana vendeva. E attirava folle mastodontiche, come quelle che la accolsero durante il Tour in Australia del 1983: gridavano il nome di lei, non quello di Carlo; si erano accampate per ore, sotto il sole rovente, per scattare una fotografia che ritraesse lei, non il figlio dell’allora Regina Elisabetta II.
Ma se da un lato la stampa ne veicolò la notorietà, dall’altro ne segnò la co-dipendenza: Diana non esisteva senza la stampa e la stampa non esisteva senza di lei. Insomma, ciò che fin dall’inizio le assicurò l’appoggio del pubblico mondiale fu la narrazione che della sua immagine fecero i Tabloid. Lady D, una ragazza acqua e sapone dell’alta aristocrazia che alla vita di lussi preferisce una umile occupazione nell’asilo del quartiere di Earls Court, a Londra, in cui vive con tre coinquiline. Lady D, una ragazza qualunque che sposa lo scapolo d’oro del pianeta. Lady D, la maestra d’asilo che diventa una principessa. È così che, senza il controllo della protagonista, ebbe inizio la sua storia. È così che iniziò la fairytale.
La protagonista della propria storia
A raccontare la propria storia Diana ci provò. Ma non riuscì mai a esserne la portavoce. I media, invece, sì.
Negli anni ’90, Diana non aveva più peli sulla lingua: gli stessi Tabloid che per un decennio avevano dipinto il suo matrimonio come la più zuccherosa delle fairytale, adesso le facevano l’occhiolino e raccontavano i grandi scandali di casa Windsor. Il pubblico sapeva tutto: l’infedeltà coniugale di Carlo, la bulimia, il tradimento con l’ufficiale Hewitt, sebbene Diana non avesse mai aperto bocca.
La moda talvolta le venne in aiuto, per lanciare messaggi di soccorso: si pensi all’iconico maglione su cui, in un gregge di pecore bianche, è cucita una solitaria pecora nera; ma si pensi anche al provocatorio vestito, ribattezzato non a caso revenge dress, che fu indossato la sera in cui Carlo ammise pubblicamente la sua infedeltà con Camilla Parker-Bowles, l’attuale regina consorte del Regno Unito, in un’intervista andata in onda sulla televisione pubblica. Ma nonostante questi piccoli momenti di ribellione, anche quando sperava di potersi affrancare dai media, i media non si affrancarono da lei.
Anche quando la sua fairytale si trasformò in una tragedia mediatica. Consideriamo, ad esempio, l’unica biografia della principessa in circolazione all’epoca: pur basandosi su registrazioni segrete, prodotte col consenso di Diana a difesa dell’autenticità delle sconvolgenti rivelazioni contenute, non porta la sua firma, bensì quella dell’autore, il giornalista Andrew Morton. E poi, consideriamo l’intervista della BBC andata in onda la notte della Bonfire Night del 1995: è vero, vide Diana protagonista (tutti ricordano quei fotogrammi: lei in tailleur, lo sguardo corrucciato, la testa timidamente inclinata), ma fu Martin Bashir a condurla e, si scoprirà solo in seguito, dopo un processo lungo anni, fu proprio Bashir a estorcere con l’inganno le delicate confessioni della principessa, cosa che, a detta del figlio William in tempi recenti «non fece che aumentare la paranoia di mia madre».
L’interesse così morboso della stampa nei suoi confronti aveva superato il delicato limite tra pubblico e privato. E non cessò nemmeno all’annuncio del ritiro dalla vita pubblica, un vero spartiacque tra la vecchia Diana e la nuova, una Diana che finalmente aveva il coraggio per raccontarsi. D’accordo, ma aveva gli strumenti per farlo?
I social: forse più libertà, ma a che prezzo?
La vera differenza tra l’era di Diana e del predominio dei Tabloid, e quella moderna dei social è che il gossip alla vecchia maniera ha perso punti: va riconosciuto ai social il grande merito di rendere ognuno, bene o male, padrone del proprio racconto. Che questo poi venga manipolato, è un’altra storia. Stiamo vivendo anni in cui le figure pubbliche, attraverso i propri canali, riescono a eludere il controllo esercitato dalla stampa pubblicando i propri contenuti e le proprie foto: la propria storia. Perciò non si può fare a meno di chiedersi: se Lady Diana fosse vissuta nell’era dei social e fosse stata in grado di raccontare la sua storia con i propri mezzi, senza l’aiuto di nessun intermediario segreto (registrazioni segrete per il libro di Morton, l’intervista al giornalista Martin Bashir per la BBC), sarebbe comunque stata vittima della stampa? La risposta non la sapremo mai.
Il crudo epilogo della sua storia, però, commosse il mondo intero, e assestò un duro colpo di consapevolezza alla stampa che, come ripeté il Conte Spencer, fratello di Diana, ai funerali a Westminster, aveva le «mani sporche di sangue». Lady Diana Spencer morì in un incidente d’auto a Parigi, cercando di scappare dai paparazzi che la inseguivano in una corsa terminata contro il tredicesimo pilone del Pont de l’Alma. L’autista, come rivelò il processo, era in stato di ebrezza. Ma se non fosse stato colpito dall’accecante flash lanciato dalle reflex dell’orda di paparazzi che li stavano inseguendo a bordo di motorini, il tragico esito, anche secondo quanto risultò dalle indagini, sarebbe stato evitato.
Non si fermarono nemmeno in quel momento drammatico. I paparazzi continuarono a scattare in preda al furioso dictat della stampa: vendere. E in un attimo il boato, l’auto accartocciata e l’unica fotografia che non ci saremmo mai aspettati di vedere: il corpo di Lady D senza vita.