Caro diario,

sono una studentessa universitaria al terzo anno di Beni Culturali ed è più di anno che non vado all’università. Non ci vado fisicamente, perché ora mia facoltà è stata trasportata completamente su uno schermo. Il 5 Febbraio 2020 è stato l’ultimo giorno in cui sono entrata in università, ero molto annoiata quel giorno, dovevo ascoltare un esame. Ero con la mia coinquilina, dopo l’esame ci siamo bevute un caffè. Era tutto tranquillo, tutto tremendamente normale. Non sapevo che quello sarebbe stato il mio ultimo giorno in università. Quando è scoppiata la pandemia per i primi mesi, nonostante l’annullamento di qualche esame, sembrava che tutto andasse bene.

Seguire le lezioni da casa, restare in ciabatte tutto il tempo, sembrava un lusso. Un lusso durato molto poco, che ha iniziato a mostrare le prime crepe abbastanza velocemente. Otto ore di lezione davanti al computer si sono trasformate in occhi che bruciano e mal di schiena, i libri che facilmente compravi da un tuo collega ora sono diventati irreperibili un po’ per la distanza, un po’ perché anche le stesse biblioteche più che un semplice luogo in cui prendere libri in prestito alcune volte sembrano un percorso ad ostacoli, esami che si alternano tra un “mettete venti telecamere così vediamo che non state copiando” e una connessione che va a scatti. E’ pesante, tremendamente pesante, eppure sembra che nessuno se ne accorga. In tutto il 2020 non ho mai letto un solo riferimento agli studenti universitari. Solo articoli, servizi al tv, post e storie strappalacrime su quanto la vita degli studenti alle scuole, quella dei lavoratori e degli anziani fosse complessa.

E noi?

Io alla tua età c’avevo già 3 figli, cosa ti lamenti a fare?

Quando inizierai a lavorare capirai

8 ore davanti al computer ti fanno male? Vieni in ufficio da me e cambierai idea

Potrei andare avanti all’infinito.

E’ come se il mondo ci vedesse come delle macchine. Perché finchè hai 20 anni o poco di più non puoi soffrire. Sei inarrestabile, senza cuore, senza battito.

Sembra che nessuno si sia accorto delle conseguenze. Tra una lezione, una pagina studiata in più e una passata di evidenziatore, ci sono persone che hanno perso buona parte di quello che erano. Persone con dei sogni che ora vivono in un’incertezza più grande di prima. Persone che vivono giornate tutte uguali, in un Truman Show.

Ti svegli, fai colazione, accendi il computer, segui lezione, mangi, riaccendi il computer, segui lezione, lo spegni e ti metti a studiare, mangi e riaccendi il computer, vai a dormire.

E’ tutto tremendamente uguale, non cambia mai e appena cerchi di fare qualcosa di diverso il mondo puntualmente ti rema contro.

Ho iniziato a vivere la pandemia che avevo 21 anni e ora ne ho quasi 23. Se prima vivevo la vita a tremila e avevo una grande passione nel portare avanti tutti i miei progetti ora non ce l’ho più. Se prima avevo una grande voglia di mangiarmi la vita per intero come una fetta di pizza gigante ora mi accontento solo di un boccone, l’importante è che non sia amaro. Se prima ero una persona che rideva di cuore per davvero ora non lo sono più, anche se la risata continua ad essere una buona copertura. E’ come se la pandemia mi avesse portato via le emozioni e le avesse nascoste in un cassetto, la cui chiave è nascosta. Dentro di me urlo, ma nessuno mi sente e va bene così, perché sono giovane e non posso lamentarmi.

Vado avanti senza cuore, senza battito, come una macchina.

NoSignal Magazine

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