Il racconto di Rawicz: The Long Walk
Dopo questo breve excursus è giunto il momento di addentrarci tra le pagine del vero protagonista, il romanzo di Savomir Rawicz,The Long Walk.
La prima parte della storia è ambientata all’interno di un carcere, quindi mostra la società umana e il mondo, per così dire, civilizzato. Essendo il resoconto di un ex deportato di un gulag sovietico, la visione dell’ambiente circostante non può che essere fortemente negativa, descritta con precisione e gran dovizia di particolari, con tonalità spente, a sottolinearne tutto il dolore e la malvagità dell’animo umano. La parola “tetro”, infatti, viene ripetuta sovente nei primi capitoli del romanzo e l’aggettivo viene utilizzato sia per connotare lo stato d’animo delle persone, sia per illustrare l’ambiente che le circonda, quasi fosse, quest’ultimo, lo specchio della loro interiorità. Allo stesso tempo, tuttavia, la critica del giovane ufficiale polacco deportato non si scaglia contro l’essere umano nel suo genere, ma si limita a colpire unicamente gli individui maggiormente influenzati dal sistema staliniano, quelli che erano stati a tal punto corrotti e inquadrati dal regime, da aver, di fatto, perso la loro stessa umanità. Dalla descrizione della loro perfidia e della freddezza che dimostrano durante le sedute nelle quali torturano i prigionieri, o durante gli interrogatori che si susseguono in processi lunghi anche intere giornate, pare che gli individui più vicini al regime abbiano, di fatto, perso la loro stessa umanità.
Si può, quindi, affermare che la critica di Rawicz riguardi, non le persone in se, innocenti in origine, ma la particolare società nella quale si ritrovano a vivere, quella creata artificialmente dai sovietici e, in particolare, giunta all’apice del degrado sotto Stalin, la quale, come detto, ha il potere di influenzare negativamente l’animo umano, corrompendolo e portandolo ai massimi livelli di brutalità di cui esso è capace.
Si potrebbe allora ritenere che, secondo il pensiero dell’autore, all’interno di una società corrotta, la quale ha perso la sua caratteristica umana nel senso di civile e benigna, l’uomo degradi ad uno stato di pre-civiltà. Non va, tuttavia, ritenuta tale una visione negativa dell’essere umano al di fuori degli schemi rigidi della società sviluppata. Al contrario, come si vedrà meglio in seguito, l’uomo che è rimasto più a contatto con la natura e le comunità meno sviluppate, o, meglio, viste tali agli occhi di chi proviene da società più evolute tecnologicamente, sono coloro che rivelano gli animi migliori e il più profondo sentimento di empatia verso i loro simili.
Tornando, però, a concentrarsi sulla prima parte del racconto e sul rapporto tra l’uomo e l’ambiente circostante, si può affermare di assistere ad un sostanziale miglioramento della condizione nella quale versano i prigionieri avanzando nella narrazione e passando da un ambiente maggiormente artificiale a uno maggiormente naturale, malgrado il viaggio li porti, inizialmente, nell’estremo Nord della Siberia, terra selvaggia, dal clima rigidissimo, resa ancora più invivibile da uno degli inverni più freddi che i miseri deportati potevano trovarsi ad affrontare, costretti a procedere a marce forzate in mezzo a tormente di neve e coperti con pochissimi strati di vestiti tutt’altro che adatti alle temperature del posto. E’, infatti, lasciandosi alle spalle la durissima esperienza della vita da galeotto nei carceri di Minsk, Kharkov e della Lubjanka, dove la NKVD, la famigerata polizia segreta sovietica raggiunge il massimo grado di brutalità nei suoi sistemi di tortura e di interrogatorio e dove, pertanto, la condizione di chi è costretto a rimanere dietro le sbarre vede, a sua volta, il massimo degrado e l’uomo passa dall’essere una creatura umana pari a tutti i suoi simili, all’essere considerato ad un livello inferiore alle bestie, che i prigionieri riescono a ritrovare una certa civiltà e a ricreare, in un certo modo, anche una sorta di società, o, per meglio dire, diversi gruppi sociali.
Questo ritorno ad uno stato di maggiore inquadramento sociale è possibile, non solo grazie al cambiamento nella condizione dei deportati, ma, anche, nel variare della condizione degli stessi aguzzini, i quali paiono divenire, man mano che si avanza nella storia, maggiormente “umani” e permissivi, quasi che il contatto con la natura ancora incontaminata dalla mano dell’uomo abbia reso il loro carattere più socievole e umano.
Emblematico è, da questo punto di vista, il viaggio che i prigionieri sono costretti ad affrontare per essere trasferiti da Mosca e da varie città russe fino al campo di lavoro nell’estremo Nord siberiano, nei pressi del lago Bajkal. Un viaggio che, nelle sue varie tappe, denota, a sua volta, un passaggio dalla maggiore civilizzazione, intesa come sviluppo tecnologico e penetrazione dell’uomo nell’ambiente naturale circostante, al dominio totale della natura, la quale, mostrando tutta la sua potenza scatenata durante il temutissimo inverno siberiano, rende vano qualsiasi artificio creato dall’uomo e ne mostra la sua impotenza. Passaggio che viene ben reso anche dal diverso sistema con il quale i prigionieri vengono spostati, dapprima trasportati tramite la celebre ferrovia transiberiana, ammassati in condizioni deplorevoli all’interno di vagoni bestiame, quindi costretti a marciare a piedi in mezzo alla neve una volta arrivati al culmine estremo oltre il quale non sarebbe più stato possibile far viaggiare un treno, in un territorio dove a dominare non è più l’uomo ma la natura e dove persino i mezzi militari sovietici devono arrendersi, impossibilitati ad incedere oltre e vinti dalla incessante bufera siberiana, immagine culmine dell’impotenza, di fronte alla natura, dell’uomo, costretto ad abbandonare la sua tecnologia. In queste pagine si percepisce una raffigurazione della natura come ostile all’uomo e, ancor più, dominante su di lui: la bufera di neve viene quasi personificata e l’autore afferma che pareva cercasse di uccidere le persone che tentavano di attraversarla.
Se già durante il viaggio in treno le migliaia di persone ammassate avevano iniziato a conversare tra loro e costituire gruppi ben definiti, è durante la marcia, immersi nella neve e nella foresta, che la collaborazione fra i prigionieri si fa maggiore e il legame che si instaura tra loro pare più solido. Gli uomini, infatti, collaborano in ogni modo per rendere la loro misera condizione il meno disastrosa possibile e per sopravvivere fino a raggiungere la meta di quella traversata nel cuore della Siberia, il campo di lavoro 303 sulla riva del settentrionale del fiume Lena. Una bella immagine di questa organizzazione si ha nella descrizione dei caratteri delle persone che formano i vari gruppi nei quali i prigionieri si sono divisi e di come riescano anche a ricreare dei veri e propri ruoli sociali all’interno di essi, in grado di caratterizzarli meglio degli stessi nomi (“i nomi non avevano importanza e i prigionieri non se ne interessavano”- cap. III).
Il culmine del ritorno alla civiltà e ad una sorta di normalità si ha quando, durante il tragitto a piedi, con i detenuti legati alla catena, qualcuno scopre che si è giunti al 24 dicembre e alla vigilia di Natale e fra i prigionieri si diffonde un noto canto natalizio, intonato da tutti i deportati, ciascuno nella sua lingua. Dunque natura ostile, ma allo stesso capace di far tornare alla semplicità e all’umanità chi vi si immerge, come si può vedere anche dalla descrizione degli ostjak, i nomadi siberiani che popolano le foreste di quest’area, i quali, hanno mantenuto una semplicità primordiale proprio grazie al loro stretto rapporto con il paesaggio circostante.
In queste pagine si ha, anche, l’esposizione di un’altra tematica fondamentale del romanzo: l’incontro con culture diverse e la prerogativa caratteristica della maggiore umanità la dove si è mantenuta una maggiore semplicità a livello sociale. Negli innumerevoli incontri che i fuggitivi faranno durante il loro viaggio, è sempre tra le genti che paiono meno civilizzate ed evolute che trovano il maggior aiuto e la più profonda empatia. La serenità che pare avvolgere queste persone, rimaste a stretto contatto con la natura e distaccate dall’artificialità della società moderna, è ripetutamente sottolineata da Rawicz. Il confronto fra i diversi valori e la loro relatività a seconda della società in cui si vive pare denotare una certa vena critica dell’autore verso la modernità.
Emblematica la descrizione degli scambi che avvengono fra gli ostjak e i soldati: i primi danno ai militari le pelli degli animali che cacciano, mentre i secondi rendono in cambio lattine vuote e altri oggetti di metallo. Stesso concetto della relatività dei valori ribadito più avanti nella narrazione, quando si racconta della mania dei prigionieri di tenere sempre una razione di pane nascosta in una tasca interna dei vestiti, a simboleggiare la possibilità di avere sempre qualcosa da mangiare e quindi di poter rimanere ancora aggrappati alla vita. Mania che viene messa a confronto con quella delle persone libere di avere sempre una moneta con se, una sorta di soldo portafortuna. Altro interessante confronto, quindi, tra società più o meno sviluppate ed evolute.