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Cap. II Una serata da ricordare o dimenticare

Il ritorno alla realtà dopo lo strano sogno della notte fu dissociante, nel senso che continuavo a ripensare al bizzarro uomo che mi dava il benvenuto nell’età adulta e a quel completo serio vicino al letto. Presi posto al mio solito banco in fondo alla classe, vicino alla finestra, mi era sempre piaciuto quel posto angolare nelle retrovie: avevo due lati coperti dal muro e un altro difeso da Gian, vicino di banco storico e compagno di stronzate colossali. Rimaneva aperto solo il fronte nord, quello verso la prof che ogni mattina richiamava la mia attenzione con uno schiocco di lingua e il mio cognome scandito melodicamente come una canzone di Gazzelle: “Scintille!” disse la Prof. Del Vecchio, per tutti Giusy. Ci accompagnava dalla prima superiore ed era quasi una mamma per noi: 1.60 metri di “severità”, completo e capelli perfetti, trucco lieve e rossetto rosso impeccabile con uno sguardo fermo e dolce che col tempo avevamo imparato ad interpretare. “Vieni alla lavagna, così correggi questo disastro”, come al solito le mie verifiche di matematica rasentavano il nulla cosmico e mi toccava la classica “dead man walking” tra i banchi mentre mi apprestavo a quella nera antracite macchiata dal gesso. “Come al solito non abbiamo capito quasi nulla”, continuò lei, “quando avrai intenzione di metterti sotto, la settimana prima della maturità?”. “Quanto noiosa” pensai mentre iniziavo a scrivere la funzione da sistemare sulla lavagna consumata, “non servirà mai nella vita questa roba”. La mattinata proseguì con un susseguirsi di fallimenti algebrici, non risolsi quasi nulla ma almeno era sabato e la serata con i miei amici si prospettava devastante. I più vecchi tra voi probabilmente danno a “devastante” un’accezione negativa, per me ed i miei amici era invece tutto il contrario, significava essenzialmente tre cose: alcool, qualche cannetta di marjuana e possibilmente ragazze da rimorchiare. Il classico sabato sera di un adolescente italiano, e a noi stava bene così: di giorno i bravi ragazzi del liceo, la sera giovani con poca dignità che riempivano le gallerie dei telefoni di video epici su cui ridere per mesi. Scrissi sul gruppo WhatsApp intasato da memes e risate, “I rimorchiatori” si chiamava e a sinistra un’immagine del nostro maestro di stile: un Silvio Berlusconi smagliante in tenuta hawaiana, cringe al punto giusto. “Ehy ragazzi, sta sera si va serata al Mango?”, era la classica discoteca di paese, teatro di mille avventure, una seconda casa a dire il vero perché oramai anche i buttafuori ci riconoscevano. I cenni di conferma non tardarono, saremmo stati 8 su 10 ed era un ottimo numero anche se mancavano Vale e Simo che pian piano si stavano allontanando da noi trascinati da un gruppo più “devastante” del nostro, spiaceva a tutti ma ognuno di noi aveva attraversato quella fase. Passa prima o poi. Mi scrisse Andre in privato “andiamo a fare la spesa di alcool per la serata?”, accettai e alle 14 eravamo davanti ad un lungo scaffale di alcolici cercando il più forte per entrare in discoteca già alticci, come era abitudine. Andrea era il classico secchione magro con gli occhi vispi e la passione per i videogiochi e la musica trap, un mix di stile, intelligenza ed insicurezza adorato da tutti e sempre al posto giusto al momento giusto, anche se a volte peccava di incoerenza tra ciò che diceva e ciò che viveva, ma nessuno è perfetto. Era il tipo del gruppo a cui ero più legato dopo il mio therapon, non che ci fosse una classifica ma in qualche modo sentivo con lui un’amicizia limpida senza ansie o aspettative. Eravamo noi e tanto bastava. “Un paio di Vodke e Gin e lemon potrebbero andare, che dici?” disse prendendo le solite sottomarche da 3 euro che solo dei poveracci come noi potevano bere, “sì, direi che oramai siamo affezionati” sorrisi, non lo facevo da un sacco di tempo e forse era per questo che adoravo stare con Andre, era capace di portarmi alla realtà bella delle cose. “Come va con Vale?” chiese a bruciapelo, non me lo aspettavo, “Si vede così tanto?” risposi con un sorriso amaro, “beh insomma, stai dimagrendo a vista d’occhio, eviti tatticamente di nominarlo, non vi rispondete ai messaggi a vicenda, direi che a tutti è abbastanza palese. Suppongo ancora male”. Gli raccontai dello strano sogno della notte prima e di come mi fossi svegliato in ansia, come oramai era abitudine da quella chiacchierata a cuor donato, mi guardò strano Andre e sospirando disse “Bella merda, sembri quasi Leopardi con Silvia. Ma se è il tuo modo di affrontare la cosa posso anche starci. Hai intenzione di parlargli?”. Sospirai al sentire quella domanda, me l’ero posta molte volte e oramai la risposta la ripetevo come un tormentone estivo “quando uno chiede di sparire non è che si abbia molto spazio per il dialogo fratellì”, era il nostro modo di chiamarci, quel “fratellì” nascondeva un affetto dolce mascherato dalla virilità che ci mettevamo addosso gli uni gli altri, sia mai essere scambiati per sensibili, non siamo ancora pronti. Continuai, “vorrei sistemare le cose ma penso abbia bisogno di tempo, io rimango qua ad aspettare e basta. Pensi possa fare altro?”, “Non credo” disse lui, “godiamoci sta serata e magari te ne trovi qualcuna da limonare”. Ridemmo e mi diede una pacca sulla spalla.

Illustrazione di Noemi Orsi

Passai a recuperare parte del gruppo per la serata, erano le 21 circa e i nostri zainetti tintinnavano di bottiglie nascoste ai genitori in un goffo tentativo di ovattare il suono con felpe e cappellini, ci fermammo nel parcheggio della discoteca iniziando a bere tutti assieme passandoci bottiglie e cantando trappate, ero felice. Entrammo, la musica si fece forte e ci dividemmo nel salutare compagni di classe e amici di amici in un turbinio di alcool e quant’altro. Vidi Simo al bancone, mi avvicinai “Ehi Simo, come stai? Seratona?”, aveva gli occhi rossi e un odore pungente addosso, segno inequivocabile di qualche spinello fumato nel bosco, ma proprio mentre iniziavo a ridere lo vidi, Vale era lì sul divanetto con il mio cuore a tracolla. Ebbi paura, mi sentivo pazzo, mi sedetti e la musica si fece sempre più lontana. “Non era un sogno”, pensai mentre Simo cambiava espressione guardandomi. “Non era un sogno”.