Un viaggio intimo in cinque tappe nel Paese del Sol Levante, tra grattacieli, foreste di case basse e sperduti templi millenari. Primo episodio
Salgo su un vagone colmo di persone. Devo scendere alla stazione di Ueno. Conto le fermate senza staccare gli occhi dallo schermo sopra le porte scorrevoli, i caratteri occidentali compaiono solo per alcuni istanti quando il treno si ferma. Arrivo alla mia destinazione. Sto cercando un quartiere che si chiama Yanaka. È una delle zone più vecchie di Tokyo, dalle foto che si trovano online si notano le case con i tetti bassi. Esco dalla stazione e cammino accanto a un parco. Quando comincio a vedere che le costruzioni cambiano, mi inoltro per una strada in salita. Arrivo vicino a un cimitero. È agosto e in Giappone si celebra la festa dei morti, Obon. Le persone indossano abiti tradizionali, gli yukata, e fanno visita ai luoghi di culto per rendere onore agli antenati. Ma a quest’ora è tutto deserto. Le lapidi di pietra attorno a me si estendono fino a perdita d’occhio creando una città di morti dentro la città.
Mi sono chiesto più volte come nasca la fascinazione per una cultura così lontana dalla nostra e in particolare per quella giapponese. È innato nell’uomo il desiderio di conoscere e amare cose opposte a lui, perché proprio il Giappone? I nostri genitori avevano ‘il sogno americano’, e noi che di America ne abbiamo assorbita forse troppa tra film, musica e moda, ora desideriamo qualcosa di ancora più lontano. Oppure è semplicemente il mondo che da ovest si sta spostando verso est. Non lo so, per me il Giappone era una malattia.
Esco dal cimitero e mi inoltro in una foresta di case basse e tralicci. Di tanto in tanto una bicicletta mi supera passandomi vicino, il rumore dei raggi che girano ricorda quello di uccelli che volano tra le piante. Poco dopo vedo di nuovo il parco spuntare dietro i tetti. Fa molto caldo, il sole mi cade a picco sulla testa. Decido di andare a cercare un po’ di ombra. Ho voglia di fumare, ma qui in Giappone è permesso solo in certe aree che spesso si trovano al chiuso. Mi siedo su un muretto basso. Guardo intorno e non vedo nessuno. Accendo una sigaretta. A metà una coppia di anziani si avvicina. Lei aiuta lui a camminare. Così la spengo sotto alla suola della scarpa e infilo il mozzicone in tasca. Si fermano e si mettono a sedere davanti a me. La donna tira fuori un panno dalla tasca e comincia a tamponare il volto del marito. Lui ha il respiro affannato. Chiedo in inglese se serve aiuto. Lei mi guarda un po’ spaesata, lui risponde che è tutto a posto. Dice che ha avuto un colpo di calore. Guardandomi intorno noto che poco più in la sul confine, tra il parco e la strada, c’è un distributore di bibite. Allora mi alzo per andare a prendere una bottiglia d’acqua da dare al signore. Frugo nella tasca per cercare una monetina da cinquanta yen, quelle bucate in mezzo. La infilo nel distributore, ritiro la bottiglietta e torno verso i due. Mi avvicino e gliela passo. La donna si alza di scatto e comincia a inchinarsi, io ricambio e torno a sedermi. L’uomo beve qualche sorso e mi ringrazia inchinandosi anche lui. Cominciamo a chiacchierare. La donna resta in silenzio.
Si chiamano Shiro e Yachi. Shiro parla inglese perché ha lavorato per una compagnia americana, ha ottantatré anni e Yachi, che ne ha settantacinque, è andata da un anno in pensione. Mi spiega che sono originari dell’Hokkaido, si sono spostati a Tokyo negli anni Ottanta. Lei non parla inglese ma con i suoi occhi sottili, infossati nelle rughe del volto, partecipa al discorso. Shiro racconta che da qualche tempo hanno preso l’abitudine di venire al parco per sfogliare il loro taccuino dei ricordi, ma che in questa stagione con il caldo lui fa sempre più fatica a uscire di casa. Chiedo incuriosito di che si tratta. La donna lo tira fuori dalla borsa: è tutto sgualcito e tenuto insieme da una copertura di plastica. Così mi sporgo con la testa per vedere meglio. Ci sono fotografie, pezzi di carta incollati e pagine fitte di ideogrammi. Nel tempo hanno scritto e documentato su quel taccuino tutte le cose importanti che sono capitate alla loro famiglia. Yachi indica con il dito una foto che ritrae un ragazzo giovane con una toga. Shiro mi spiega che quella foto era stata scattata il giorno della laurea di loro figlio. Scorrono le pagine mostrandomi altre foto di famiglia: una gita in montagna, un viaggio in Europa, una foto di loro due su una spiaggia bianchissima a Okinawa. Si fermano a una manciata di pagine dalla fine del taccuino, sono le ultime rimaste, tutte bianche. Shiro dice che da quando sono diventati vecchi non gli capita più niente da annotare. Alla fine, zaino in spalla e li saluto con un inchino.
C’è una parola in giapponese che è quasi intraducibile: Natsukashii, è la nostalgia per un’epoca passata, per qualcosa che non ci appartiene più, una sensazione che è un misto tra euforia e tristezza. Mentre cammino tra gli alberi del parco ripenso a quelle pagine vuote. Per i giapponesi il vuoto non è uno spazio assente ma uno spazio tra, e quello spazio mi fa paura. Mi fermo su un ponte. Guardo i grattacieli, il sole che ormai sta scomparendo dietro di loro. Provo anche io la stessa nostalgia di Shiro e Yachi, come se la loro casa fosse stata la mia casa e la loro storia la mia. Non abbiamo nostalgia solo di quello che era nostro e che non lo è più, come una forma di malessere empatico viviamo la stessa nostalgia anche per quello che era di altri. Torno alla stazione di Ueno e prendo il primo treno per Yūrakuchō, è la mia prima sera e voglio andare in un ristorante di cui ho letto su una guida. È in una zona che viene vissuta di notte, le vie sono strette e piene di locali in cui le persone vanno a bere e mangiare dopo il lavoro. Da una parte ci sono gli uomini con camice bianche e cravatte slacciate portate al collo come sciarpe che barcollano in mezzo alla strada ubriachi, dall’altra le donne che ruttano tra un sorso e l’altro di Whiskey soda.
Yurakuchō è un cespuglio di erbacce in mezzo a un campo da golf. Vecchie case in legno e edifici anni Novanta che resistono al tempo, l’ultima traccia di una Tokyo che tra qualche anno potremo ammirare solo nelle pagine dei manga di Yoshihiro Tastumi. Infatti, tutt’attorno ci sono gru bianche e rosse che tirano su edifici moderni come fossero lego. È la data di scadenza che si avvicina, ogni mattone qui ne ha una. Di solito si aggira attorno ai trent’anni, uno stratagemma inventato dal governo durante il boom economico degli anni Sessanta per tenere sempre in crescita il mercato edilizio. È la formula magica che fa rinascere Tokyo in continuazione, come il suo Sol Levante che ogni mattina spunta dall’Oceano Pacifico, ogni mattina la città che si sveglia è diversa da quella della sera prima. Quando arrivo all’indirizzo mi trovo davanti a una vetrata appannata dietro cui si muovono le ombre delle persone sedute a mangiare. L’insegna sopra l’ingresso è ingiallita. Varco la soglia e subito una ragazza mi corre incontro. Inchioda a pochi centimetri da me, poi si fa spazio tra la gente tutta ammassata per porgermi un inchino di benvenuto.
L’odore del miso si mischia a quello delle sigarette che continuano ad accendersi nella penombra. In Giappone fumare per strada è “severamente vietato” che nella scala giapponese dei divieti è quello più assoluto; invece, qui nelle taverne dove si beve e si mangia spesso è concesso. Questa è solo una delle tante contraddizioni, un bug nel complesso codice dei divieti che regolano la vita di un giapponese. Mi fanno togliere le scarpe e sedere al bancone. La persona che ho accanto riemerge per un istante dalla ciotola e mi guarda stranita, sbatte gli occhi e riprende a mangiare. La bocca di un condizionatore impolverato sputa un getto di aria gelida sopra la mia testa. L’ambiente è fatiscente e la cucina a vista, su cui mi affaccio, è disordinata, colma di padelle e piatti sporchi. Di sicuro questo contesto non è quello che solitamente uno si immagina quando progetta nei sogni un viaggio a Tokyo. Ti aspetti piatti ordinati con fette di pesce crudo tagliate minuziosamente. Invece, la ciotola che lo chef mi fa scivolare davanti ha l’aspetto di un minestrone con degli spaghetti spessi quanto grissini che ci navigano dentro assieme a una fetta di maiale arrosto. È un piatto di udon, uno tra i cibi più diffusi in Giappone. Inizio a mangiarlo da italiano, quindi cerco di arrotolare gli spaghetti. Quando faccio per portarli alla bocca scivolano dentro alla zuppa. Così mi convinco a mangiarli come fanno loro, con la faccia dentro la ciotola, facendo rumore. Esco dal locale sconvolto.
Sono partito per il Giappone perché ero malato di Giappone. Una passione che negli anni ha influenzato molti aspetti della mia vita. Credevo di conoscerlo, di saperne tanto perché avevo letto libri, visto film e documentari, eppure non è così. Passeggio per questa città che conta 37 milioni di abitanti, quasi il sessanta percento della popolazione italiana, e mi rendo conto che il vero miracolo qui è l’ordine. Non quello essenziale, che associamo alla nostra idea di Zen: è un ordine confuso e difficile da capire, una complessa serie di incastri che permette a tutto di scorrere senza fermarsi.
A Tokyo non esiste il vuoto, ogni spazio è pieno. Le auto, la gente che cammina e perfino i treni che passano in mezzo ai grattacieli seguono un ritmo frenetico che scandisce la trasformazione continua di questa megalopoli. Prendo la metro per tornare al mio hotel, da Yurakuchō a Ginza sono poche fermate, la linea è quella arancione. Domani lascio Tokyo per andare alla ricerca di un posto sperduto tra le montagne nella prefettura di Fukui. È un tempio Zen che esiste da quasi mille anni.
Testi e fotografie di Umberto Ferrero