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Di pochissime cose sono certa nella mia vita. Ogni volta che qualcuno mi pone la fatidica domanda su quale sia il mio libro preferito, la mia canzone preferita o il mio film preferito, mi ritrovo sull’orlo di un abisso di incertezza – se dovessi mai ritrovarmi su un red carpet (periodo ipotetico dell’irrealtà), a tu per tu con l’inviato di Letterboxd che mi intima di nominare, così su due piedi, i quattro film più importanti per me, credo che fingerei di essere morta come gli opossum davanti al pericolo. Per ovviare a questo potenziale scenario, ogni sera mi preparo mentalmente la risposta, modificandola periodicamente, caso mai all’improvviso dovessi diventare famosa. Eppure, di una cosa e una soltanto sono sicura: alla domanda qual è stato il mio cartone animato televisivo preferito risponderei, senza alcuna esitazione, Dragon Ball. 

Ho scritto cartone animato in maniera consapevole: so benissimo che stiamo parlando di un anime – ovvero di un adattamento animato di un manga, fumetto della tradizione giapponese – ma non è questo il luogo per fare la storia del genere, che negli ultimi anni sta sorprendentemente avendo un nuovo exploit globale. Per noi millenial italiani (e non solo), nati, cresciuti e pasciuti a merendine idrogenate e televisione di consumo, le maratone di cartoni animati trasmesse quotidianamente a orari fissi – al mattino, davanti alla tazza di latte e Nesquick e nel primo pomeriggio, appena usciti da scuola – sono state imprescindibili e inevitabili, come il motivetto insopportabile de L’ora esatta su Canale 5: scandivano le nostre giornate, le nostre intere esistenze. Per la storia di Goku, dei suoi incontri (in cui, come ben sappiamo si nasconde uno scontro, e lo sa)bisognava attendere le 14. Il pranzo si trangugiava in quattro bocconi, le domande della mamma o della nonna sarebbero rimaste senza risposta perché tutto doveva tacere quando la voce di Giorgio Vanni avrebbe scandito quel suo quesito esistenziale che, prima ancora di conoscere i rudimenti della filosofia liceale, avrebbe messo in crisi i nostri piccoli cervelli in fiamme: Chi sei, Goku non lo sai… Ed ecco che si apriva un universo fantastico, fatto di tornei di arti marziali e viaggi spaziali, alieni e divinità, uomini muscolosi in tutine attillate e draghi evocati all’occorrenza, apocalissi e resurrezioni, tutto frutto della fantasia e del genio di Akira Toryiama, maestro mangaka scomparso improvvisamente a soli 68 anni, lo scorso 1 marzo, lasciando un po’ orfani tutti noi. 

La serie, nata in Giappone nel 1984 come manga, trasposta in anime due anni dopo, ebbe fin da subito un enorme successo, per poi essere consacrata come modello e ispirazione per molte grandi opere successive, come Naruto di Masashi Kishimoto, altro immenso capolavoro discendente diretto di Dragon Ball. Arrivata in Italia nel 1989, è rimasta in onda su Italia 1 per decenni, repliche dopo repliche, prima di approdare sui canali dedicati solo all’animazione. 

E a nessuno di noi, fruitori della vecchia tv generalizzata e ancora lontani dalle piattaforme di streaming on demand, interessava più di tanto che, dopo un ciclo di tre, quattro anni circa, il tutto sarebbe finito, perché eravamo certi che il signor Berlusconi avrebbe pigiato il tasto del replay e il pomeriggio seguente sarebbe ricominciato tutto da capo: dopo la controversa saga di GT, sarebbe ripartita la prima stagione di avventure. Goku non era mai morto, era tornato bambino, quel giorno avrebbe incontrato una ragazzina dai capelli turchini di nome Bulma e la storia sarebbe ripresa. 

La valenza di principio ordinatore di Dragon Ball è per me tale che riesco a individuare nel passato con abbastanza precisione quale momento della mia vita stessi attraversando in base alla saga del momento, cioè quale cattivo di turno Goku e i suoi compagni stessero cercando di sconfiggere. Exempli gratia: la prima volta in cui Goku si trasformò in Supersaiyan (o meglio, la prima in quel ciclo di rewatch, almeno il terzo nei miei tredici anni dell’epoca) facevo la terza media ed ero innamorata del mio compagno di banco: quale modo migliore per tentare un approccio se non discutere della potenziale, ma mancata, trasformazione di Pan – figlia di Gohan, nonché nipote del protagonista – il cui sangue era per un quarto saiyan, solo perché femmina?

Dragon Ball è stata la koinè della mia infanzia e della mia adolescenza, la lingua comune, grazie alla quale poter intrecciare legami d’amicizia e magari anche di natura ‘economica’, soprattutto con la componente maschile (con la quale ho sempre avuto una maggiore dimestichezza), e le lamincards, le carte plastificate da collezione, erano la valuta corrente per questi piccoli affari.  Non nego di aver anche ‘prostituito’ la mia discreta abilità artistica nel riprodurre ritratti dei protagonisti dell’anime in cambio magari della risoluzione un esercizio di matematica o di qualche Goleador. 

Un altro aspetto fondamentale che lega ancora oggi il mio essere quello che sono al capolavoro di Toriyama è l’educazione (o dis-educazione) sentimentale che Dragon Ball mi ha fornito. Non voglio scomodare nessun pedagogo o psicologo in questa mia dichiarazione, ma so benissimo che ‘il motore immobile’ a cui faccio risalire i miei gusti in campo maschile è, senza ombra di dubbio, Vegeta. 

Basso, stempiato e col testone, – ma ha anche dei difetti – il principe dei Saiyan è stato il mio primo amore, nonché il modello a cui il mio inconscio fa riferimento ogniqualvolta mi sono ritrovata a perdere la testa per qualcuno. Da tutti odiato per quel caratteraccio passivo aggressivo, a ben guardare invece Vegeta non manca di dimostrare le emozioni più forti e sincere di tutto il manga. E nonostante non faccia altro che maledire Kakaroth/ Goku, il suo più grande rivale, non può fare a meno di lui e non credo che la buonanima di Toryiama verrà a infestare i miei sogni se mi azzardo a evidenziare una ‘leggera’, ma innegabile, vena omoerotica tra i due (e non solo loro: vedi le altre grandi accoppiate maschili della serie). D’altronde, cos’altro può essere la speciale tecnica della fusione se non una metafora per un’unione carnale sublimata allo stato molecolare? (Per questo tema avrei bisogno di un saggio universitario, quindi mi fermo qui.) Negli anni ne ho discusso con le mie amiche, che in maniera sicuramente più normale, hanno individuato il loro sexual awakening nel Zac Efron di High School Musical o in qualche One Direction. Nel mondo del 2D la facevano da padroni gli Specialisti, gli inutili fidanzati delle anoressiche e glitterate Winx, fatine dall’orgoglio italiano (non vi stupisca allora se vi dico che, tra questi ultimi, il mio prediletto fosse Riven, bruttissima copia patinata dell’originale Vegeta, da cui Igino Straffi aveva palesemente copiato sia la tossicità che il taglio di capelli). 

Vegeta: l’eterno secondo, la rappresentazione plastica della frustrazione e del risentimento, l’incarnazione animata del complesso di Napoleone, capace di eccessi di ira e di crudeltà inaudite, ma anche di inaspettati slanci di affetto e commoventi sacrifici. Chi non ha pianto al suo arakiri per sconfiggere Majin Bu, dopo un discorso dal pathos degno di personaggio shakespeariano, sta mentendo. Il morally gray charcter si sa, porta da sempre con sé una grossa dose di fascino, e credo che proprio con Vegeta, l’opera di Toriyama abbia toccato i momenti lirici più alti, di un valore artistico non comune per un manga shonen della fine degli anni ‘80, ribaltando così la visione stereotipata di scazzottate senza senso che altrimenti personaggi intrinsecamente buoni, ma pressocché piatti come Goku, non gli avrebbero permesso di raggiungere. 

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Dragon Ball e Dr. Slump, i due lavori più noti di Akira Toryiama

Non è nel mio stile cercare la morale nelle cose, tanto più non sopporto chi si sente in dovere di giustificare una passione per qualcosa di più ‘frivolo’ o disimpegnato come può essere una serie animata, dicendo che è stata foriera di chissà quali insegnamenti morali, quali alti valori. Ho già letto abbastanza pezzi dedicati a questo, e di certo non nego che Dragon Ball abbia avuto alla sua base i più nobili ideali che il maestro Toriyama aveva infuso in ogni tratto e in ogni parola dei suoi personaggi. Ma tutto questo già lo sappiamo. Io credo, in realtà, che Dragon Ball sia stato molto di più. Ha plasmato l’immaginario di una – anzi due – generazioni, ha fornito un lessico e un bagaglio di citazioni a cui ancora facciamo riferimento, simboli e icone del nostro tempo che non ho timore a paragonare agli eroi letterari del grande canone, è stato capace di unire il Sol Levante con il solleone mediterraneo. 

Riprendendo l’affettuoso saluto di Eiichiro Oda, il creatore del mastodontico manga fanta-piratesco One Piece, mi auguro che Akira Toriyama possa ora godersi l’aldilà come quel posto gioioso che si era immaginato, tra un allenamento con Re Kaioh del Nord e una corsetta sul Serpentone, mentre noi cerchiamo le sfere del Drago per riportarlo qui sulla Terra (quella dell’Universo 7, s’intende) ancora per un po’. ♦︎


Illustrazione di Susanna Galfrè