Gioventù bruciata

Quand’è che si capisce che un’epoca è finita e ne sta cominciando un’altra? Da dove arriva quel click che, dopo essere scattato, fa percepire tutto da un’altra prospettiva? È solamente così che una generazione arriva e un’altra se ne va, portando via con sé una parte di quel piccolo pezzo di mondo che si pensava di conoscere. Immaginiamo di andare ad una festa. Prendiamo un drink. Il bicchiere di vetro, i cubetti di ghiaccio e il liquido colorato che scorre giù: c’è tutto, anche quel familiare strumento, di cui, certo, si potrebbe fare a meno, ma che è così cool. Si tratta di quell’oggetto che il boom economico ha eletto a rappresentante del suo stesso benessere, e che adesso richiama, quasi con nostalgia, un tempo di incoscienza collettiva, consumi e spreco, che non tornerà più. Si trattava di un lusso di plastica, colorato divertente spensierato, nato per puro piacere di consumo senza pensare alle conseguenze ambientali, così come non ci pensò il suo inventore, Marvin Stone, convinto solamente che con quel brevetto avesse fatto il colpaccio della sua carriera. Ecco che questo oggetto diventa il simbolo di una differenza generazionale e di un momento storico ben preciso: le cannucce di plastica sono ormai un lusso che la nuova generazione non si può più permettere. Le nostre cannucce sono di carta.  Forse un cambiamento insignificante. Forse, invece, un cambiamento che permette di stabilire una linea di demarcazione chiara tra due epoche: una che sta finendo, l’altra, invece, che fa fatica a cominciare. Prendiamo allora questo oggetto apparentemente innocuo e a tratti irrilevante per mettere due generazioni a confronto e approdare a un’unica convinzione: il mondo che hanno vissuto i nostri genitori non esiste più e noi siamo stati tratti in inganno, sospesi tra le favolose proiezioni a cui ci avevano insegnato a credere, e la ruvida realtà di un mondo esauribile e prossimo ad esaurirsi. Le eredità di padri irresponsabili sono ricadute sulle spalle di figli responsabili, lasciandogli un pianeta prossimo al tracollo ambientale, una società iperconnessa ma divisa, un lavoro precario-sottopagato, e un deficit immaginativo. Insomma, tutti i temi caldi che Gabriella Dal Lago, scrittrice torinese, ha evocato con maestria nel suo ultimo romanzo, Estate caldissima, edito da 66thand2nd. 

Ci sono trentanove gradi. Ci sono delle regole […] La siccità non era come se l’erano immaginata. Abituati a film sui disastri ambientali, allenati all’apocalisse, si erano trovati del tutto impreparati a quello che stava succedendo.

Estate 2022. Un caldo che brucia i pensieri e inasprisce i rapporti fa da leitmotiv a un dramma generazionale che si compie in una casa di campagna, quando i membri di un’agenzia creativa si riuniscono per sfuggire all’afa soffocante della città. «Come il Decameron ma senza la peste»: sotto lo stesso tetto per sette giorni, si ritrovano una gatta, un bambino e sette adulti. Quella che vivranno non ha nulla a che vedere con ‘la lunga estate caldissima’ grondante di spensieratezza di cui cantavano gli 883 al Festivalbar del 2001: non è un caldo invito al ventre materno ma al contrario è un caldo che brucia e nasconde un inquietante presentimento: «[…] un senso di estinzione. Un senso di fine. Una fine noiosa, lenta strascicata: una relazione conclusa per stanchezza, quella tra gli esseri umani e il pianeta». Sarà il caldo a bruciarli o si bruceranno da soli, solo toccandosi? Gian, Greta, Laura, Carlo, Alma, Tommi e Vic: sono loro i nuovi ‘rebels without a cause’, non diretti da Nicholas Ray, ma da un’accorta Dal Lago, abilissima nel saper tenere le fila di un racconto pronto ad infiammarsi imprevedibilmente in qualsiasi istante, e lanciare acute riflessioni sul proprio tempo, il nostro, che cambia a velocità incontrollabile. Chi siamo? Dove stiamo andando?

Adulthood

Bevono troppo; mangiano male; nonostante i buoni propositi che fanno a Capodanno da circa un decennio, non smettono mai di fumare. È più il tempo che sprecano di quello che vivono; si lamentano di non avere tempo libero, ma quando ce l’hanno non sanno che farci.

Non hanno fatto la guerra, non hanno fatto il Sessantotto. Hanno consumato come gli era stato insegnato a fare e di questo se ne fanno una colpa. Si nutrono di storie di tutti i tipi: quelle che dopo ventiquattrore si cancelleranno, su Instagram, e quelle nate per il puro intrattenimento, su Netflix. In ogni caso, è la loro storia l’unica che vorrebbero raccontare, ma non sanno come. L’unica cosa che gli si può riconoscere è di aver capito i limiti della loro generazione e averli accettati?

Lo sguardo di Gabriella Dal Lago, classe 1992, si posa sapientemente su quella fascia di persone tra i venticinque e i quarant’anni, una generazione che sfugge le etichette, ma che esiste.  Di quale generazione stiamo parlando? I sociologi parlano di ‘generazioni’ sperando di riuscire a racchiudere entro etichette sicure le persone nate negli stessi periodi storici, ma raramente riescono a descriverle. Nella sua personalissima confessione di una figlia del secolo, Gabriella Dal Lago, diplomata alla Scuola Holden, coglie il senso del nostro tempo ponendoci davanti agli occhi i ritratti di chi sembra conoscere molto bene: «giovani, vecchi, millennial, […] creativi, imprenditori, pubblicitari, artisti, precari», tutti coloro che popolano la generazione di nati tra inizio anni ottanta e metà novanta e che i sociologi hanno definito generazione Y, o più spesso, Millennial. Sono loro, forse, ad aver sofferto di più, rispetto alle generazioni successive, l’impatto con una realtà non corrispondente alle aspettative. Tutti i membri di Bomba Agency, infatti, compreso il direttore, Gian, che è il più grande della comitiva con i suoi quarantacinque anni, l’unico abbastanza adulto da potersi permettere «delle case altre, oltre al luogo in cui si abita», sono accomunati dal posto di lavoro nell’industria culturale: questo dato economico basta per individuarne un gruppo compatto che valica le differenze d’età.

L’equilibrio è, per tutti loro, sempre, una condizione provvisoria.

Chi sono questi individui, se non figli del precariato e dell’instabilità lavorativa? L’antico detto per cui ‘il lavoro nobilita l’uomo’ che non sembra adattarsi più di tanto alle loro carriere, è sostituito da ‘il lavoro non ti ama’, il titolo di quel saggio di Sarah Jaffe. L’esito della loro full immersion creativa diventerà infatti un’occasione di disfacimento reciproco delle loro identità. La mancanza di sicurezza mina i rapporti interni al gruppo conducendoli ad un’esacerbazione delle problematiche individuali. Forse non sono abbastanza adulti per sopportare una vicinanza prolungata? D’altronde, si parla anche di ‘Boomerang Generation’: è questa un’altra delle designazioni assegnate per indicare la loro tendenza a ritardare alcuni dei riti di passaggio all’età adulta, che nelle generazioni precedenti si verificavano prima. La crisi economica tra 2007 e 2013 li ha costretti a vivere con i genitori più a lungo, a diventare indipendenti più tardi. Ecco un altro degli interrogativi su cui Estate caldissima ci fa riflettere: quand’è che si diventa adulti in senso tradizionale, oggi? Valgono ancora le 3 emme (mestiere, moglie, macchina) tanto contestate dai sessantottini, come prerogative di una gioventù che mantiene una forte identificazione con i modelli societari maggiormente diffusi? O, molto probabilmente, anche il diventare adulti non rispecchia più, per molte persone, l’ideale approdo finale tanto agognato? Gli adulti tratteggiati da Gabriella Dal Lago sono persone incomplete, complesse, sfaccettate. Riescono tuttavia ad elevarsi dalla loro unicità e incarnare tropi universali: ognuno di loro rappresenta, a modo suo, un frammento delle fragilità che affliggono l’instabile generazione di cui fanno parte. Carlo abusa di cocaina per sopportare la fine di una relazione, Laura non riesce a liberarsi di un partner tossico, Alma scopre per la prima volta di provare attrazione per un uomo e non per una donna, Tommi abbraccia un mondo di scoperte senza pregiudizi, Vic è una giovanissima (forse l’unica appartenente alla Gen Z) sostenitrice della causa climatica. Lavorano, certo, ma non basta questo a renderli ‘adulti’ in modo convenzionale.

In Estate caldissima il gap generazionale è un tema che emerge soprattutto nella relazione tra Gian e Greta. Lui si sente minacciato dal modello di vita di suo padre, il quale non fa che rimproverarlo per il suo lavoro e per l’inettezza con cui si prende cura del figlio, Leo, avuto da una precedente relazione («Hai scelto di lavorare con dei bambini perché non vuoi crescere neppure tu […] Come pensi di poter essere un esempio per tuo figlio, se l’unica cosa a cui assiste ogni volta è il tuo sfacelo?»). Greta, quindici anni più piccola di lui, ha conosciuto Gian all’università quando era il suo professore, ha molte insicurezze ma la più grande è di non essere presa sul serio, non tanto dagli altri quanto più da se stessa. È proprio a causa di questo squilibrio, (d’età, di potere, forse anche di generazione?), che tra di loro l’incendio potrebbe innescarsi in qualsiasi momento: «Lei lo ha accusato di essere insensibile rispetto al disastro climatico, lui non sa perché ma si è messo a ridere, e questa cosa l’ha fatta incazzare. Ha detto che era una caratteristica della sua generazione, non dare peso alle cose importanti fino a quando non somigliano a dei disastri. “Vedi? Per colpa del vostro sarcasmo, ora tocca ai ventenni farsi il culo per salvare il mondo”. Lui si è un po’ risentito e allora le ha detto: “E voi trentenni, che ruolo giocate in tutto questo?” […] lei è emersa dal cuscino in cui aveva nascosto la faccia e ha detto: “Almeno noi ci sentiamo in colpa”».

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Estate caldissima di Gabriella Dal Lago, 66thand2nd, 2023.

La forgotten generation

Gabriella Dal Lago ha saputo osservare molto bene i suoi coetanei: l’arguta analisi che se ne ricava da Estate Caldissima è priva di meri vittimismi ma densa di cinismo e drammaticità. Sembra che tutto ciò che rappresenti la sua generazione, a partire dal linguaggio, di cui rimarca certi sintagmi e slang («totale»), la infastidisca e al tempo stesso la attragga. 

«A tavola, riempiendosi il piatto di un’insalata fredda con pomodorini e feta, hanno da ridire su tutto: la guerra, la crisi energetica, la società neoliberale, il concetto di merito, l’iva sugli assorbenti, il congedo mestruale, la paternità, il gap salariale. Quello che dicono è, il più delle volte, niente». Il senso di nichilismo e di tensione verso l’ignoto è esemplificato dall’uso magistrale di flashbacks e del flashforwards, questi ultimi tra parentesi quadre, che al posto che ampliarlo non fanno altro che conferire al narrato un senso di immobilità mortuaria. Ci sarà un futuro, viene da chiedersi? O il futuro è già questo e ci siamo dentro? Nella lunga settimana ‘caldissima’, il tempo è relativo e il narratore guida il nostro sguardo, come un regista con la cinepresa, sulle storie presenti, passate e future di questi personaggi, apparentemente cristallizzati nel tempo. 

Quasi tutto quello che fanno è dimenticabile e sarà dimenticato; e mentre lo fanno, continueranno a leggere newsletter e articoli e guardare film e serie tv che parlano della fine di tutto quello in cui vivono immersi: la fine dei social network, la fine di internet, la fine del capitalismo, la fine del mondo.

Svestìti di ogni orpello del consumo, i sette adulti si rivelano per quello che sono: esseri umani che hanno un unico timore, quello di essere dimenticati. Ecco spiegata questa ossessione per tutto ciò che ci permette di salvare momenti in una memoria esterna che non sia così labile e tristemente fragile come quella umana. Ecco spiegati i video che non riguarderemo mai, ma fatti comunque, per paura di perdere un momento che stavamo vivendo e che non avevamo ancora finito di vivere. Ecco che allora potremmo riuscire a incasellarli, questi giovani, in una generazione: nei nuovi ‘roaring twenties’ carichi di promesse del XXI secolo, si affaccia una nuova ‘lost generation’ di artisti, con una differenza: più che perduti, infatti, loro si sentono dimenticati. 

Lasciare andare il mondo

Non si sa da dove arrivi, ma quel click fondamentale Gabriella Dal Lago lo ha fatto scattare dentro il lettore e alla fine di Estate caldissima ne siamo certi: un’epoca è decisamente finita. «Siamo in un’epoca in cui ciò che è stato non c’è più e ciò che ci sarà non c’è ancora», scriveva Alfred de Musset e a modo suo anche Gabriella Dal Lago si fa fiera portavoce di una generazione di cui ha colto lo spirito essenziale. Chi si salva dal grande diluvio che si scatena dopo quell’‘estate caldissima’? I due outsider, il bambino e la gatta. È con una pioggia di durata ventennale che Gabriella Dal Lago crea un cortocircuito narrativo che inverte la direzione del corso della storia: immaginare un futuro non solo è possibile, ma è necessario per salvarci dalla paura dell’oblio. Le azioni passate prendono forma storicizzandosi e sottraendosi all’eterno ritorno di quel senso di impotenza e vuoto che aveva incatenato un’intera generazione. Il senso della storia entra nel romanzo, recupera e spiega il passato.

“E questa?”, gli domanda indugiando sulla cicatrice “Raccontami di questa”. Allora Leo ci riflette, raccoglie le idee e poi inizia: “Questa è la storia di un’estate caldissima”.

2042. Il futuro ha un numero e dei volti. È Leo, il figlio di Gian, che nel 2022 aveva solo 8 anni, e nell’epilogo ne ha 28, a muoversi tra i pezzi di ricordi della casa di campagna ormai disabitata. L’eredità dei padri di nuovo ricade sulle spalle dei figli e il cerchio che si è chiuso si ripete per un’altra generazione. «Un giorno arriverà il momento in cui Leo e quelli della sua generazione saranno così incazzati con voi che vi mangeranno la testa»: questa profezia, che Greta aveva formulato in un acceso dialogo con Gian, tuttavia non si avvera. Ciò che Leo percepisce entrando in quella casa non è rabbia nei confronti del padre ma una rasserenata comprensione e accettazione della contingenza del destino, scritto non da singoli individui ma da circostanze storiche ed economiche, incontrollabili. Strutture di un mondo in costante cambiamento ed evoluzione che bisogna saper accettare nella loro transitorietà.

Rebecca De Vecchi
Amo la provincia, i libri della biblioteca e il caffè d'orzo. Scrivo poesie. Colleziono tazze commemorative della Regina Elisabetta II. Sono un'inguaribile romantica. Il mio sogno è tornare indietro nel tempo per frequentare i caffè letterari nella Parigi degli anni '20.

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