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Il 21 marzo è la Giornata mondiale della poesia e anche della pace interiore. La prima ha origini molto antiche, ma anche la seconda è una tematica che, contrariamente a quanto si possa pensare, la letteratura e le filosofie trattano e studiano da tempi più o meno recenti.

Già in passato si è potuto comprendere che essa è parte dell’uomo e del suo sviluppo, ed è determinante per le condizioni della sua vita. Se non si è in pace con sé stessi, l’esistenza diventa inevitabilmente infernale, perché non si riesce ad avere un rapporto sereno e non conflittuale con il proprio io e con gli altri. Non è una coincidenza se spesso si mette in relazione la pace interiore alla poesia: la prima, infatti, è ambita forse da ogni uomo. 

Ma qual è il motivo? La poesia è davvero così importante e rilevante per l’uomo? Può essere uno strumento funzionale al raggiungimento del suo equilibrio spirituale e mentale? La risposta è sì.

Il presupposto per parlare di poesia, però, è quello di scardinare l’idea che sia “roba per sognatori”: questo dovrebbe essere un postulato. Non si tratta di materia inutile e impercettibile, frivola e trascurabile. Non è ciò che scelgono di fare certe persone sconnesse dalla realtà, per il puro desiderio di dilettarsi o di evadere da qualcosa. È, invece, come una scienza rigorosa, con i suoi metodi, le sue leggi, le sue ricerche e i suoi obiettivi. È la cosa più concreta e necessaria del mondo: è la bussola dell’esistenza, che ne indica tutte le possibili direzioni e fornisce l’orientamento per farsi strada.

In poesia l’interiorità umana diventa degna di essere raccontata nel Trecento con Francesco Petrarca. Il soggetto è affermato come centro della riflessione morale e per la prima volta in letteratura non occorre giustificare il parlare di sé, ma si riconosce all’io la dignità di essere rappresentato. Si comprende che l’uomo ha in sé interi universi inesplorati e che, proprio per l’ignoto e lo sconfinato buio che lo costituisce, va analizzato e compreso.

Citando le parole del nostro poeta, l’uomo è frammentato. Ha bisogno di «essere presente a  stesso e di raccogliere i frammenti sparsi della propria anima». Petrarca ha provato a farlo attraverso, ovviamente, il suo strumento prediletto: la poesia, che è come «il coltello con cui frugare dentro  stessi». È la forma d’espressione di molti, perché permette di guardarsi dentro talvolta in modo anche brutale. Avvicina, quindi, alle verità che a voce non si riescono a dire o che addirittura non si ammettono a sé stessi. È la barca che, navigando per le tempeste che si scatenano sui mari interiori, lotta per condurre l’anima al porto della serenità.

Spesso, infatti, ciò che si fa quando si è turbati è provare a tradurre le proprie sensazioni in parole. Esse prendono ordine e forma perché solo scrivendo si comprende ciò che si prova e si pensa realmente. È il solo modo per far luce sui propri sentimenti e far venirne fuori la natura, e poi far ordine nella propria interiorità. 

Ancora Petrarca è l’esempio lampante di chi, attraverso la poesia, riesce ad avere una catarsi. Riesce finalmente ad essere onesto con sé stesso, a capirsi e a disciplinarsi come meglio può per comprendere cos’è che lo tormenta e qual è la strada della salvezza.

E poi c’è il sommo poeta, Dante, che invece usa spesso la poesia come puro balsamo per le ferite che dilaniano il suo cuore. La morte della sua amatissima Beatrice è per lui causa di profondo dolore. Tuttavia, riesce con l’altissima poesia della Divina Commedia a «dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna» e a vivere la sofferenza producendo un’opera destinata a permanere nei secoli, emozionando, affascinando e ispirando intere generazioni. 

Se Dante è riuscito a parlare di Beatrice nonostante la sua morte ed è riuscito a raggiungere un certo livello di pace e Petrarca è riuscito a tenere a bada i suoi tormenti comprendendo quale fosse la retta via, è stato grazie alla poesia.