Con Oppenheimer, Christopher Nolan dà vita alla sua opera più matura ed emotivamente sentita. Il film espone le contraddizioni di una delle figure più dibattute del’900, portando a compimento l’ossessione del regista per la frammentazione delle unità narrative. Una pellicola estremamente attuale date le tensioni politiche odierne, ma che non rinuncia alla riflessione meta-testuale che contraddistingue la filmografia del cineasta britannico.
Nolan ha sempre costruito le sue storie come meccanismi a orologeria. Ingabbia i suoi personaggi in algidi palinsesti fantasmatici, le cui sorti sono determinate dalla loro capacità di comprenderne o meno il funzionamento. Ciò è evidente in Tenet e nelle stratificate matriosche oniriche di Inception. Si pensi anche agli sforzi del protagonista di Memento per orientarsi in un mondo che si resetta ogni 10 minuti. In Oppenheimer, questa fisima è materializzata concretamente dalla costruzione dell’ordigno atomico raccontata nel film, la cui esplosione è emblematicamente l’epicentro della narrazione. La terribile e gigantesca colonna di fuoco dei Trinity Test è un momento di stasi idilliaca e romantica contemplazione. Lo sguardo della macchina da presa dilata quest’attimo d’incandescenza a dismisura, e le sequenze che lo accerchiano paiono frammenti, schegge impazzite di un caos magmatico. Sono i residui e le macerie sollevate dalla detonazione. Il film è letteralmente una bomba che ci scoppia negli occhi.
La terribile e gigantesca colonna di fuoco dei Trinity Test è un momento di stasi idilliaca e romantica contemplazione.
Un tempo, un incontro
Nolan disgrega l’unità-scena (s)componendo il film in scorci di situazioni frantumate, dove ogni tentativo di dialogo o ritorno a uno stato di convergenza fallisce. Ciò si presenta, oltre che nell’architettura della sceneggiatura, nelle relazioni tra i personaggi, quasi che fossero anch’esse sottoposte a un processo di fissione. Si pensi alle vicende di Los Alamos: qui, un gruppo di persone, alloggiato nello stesso posto per raggiungere un obiettivo comune, è impossibilitato ad avere un quadro completo del progetto. Ognuno ha informazioni parziali relative al pezzetto di programma che gli compete. Eppure sono tutti lì, a pochi metri l’uno dall’altro, a lavorare alla stessa cosa. Il non-dialogo sembra impossibile e infatti ci sono fughe d’informazione, e la compartimentazione non riesce a essere così stagna come vorrebbe. Questi scambi-interazioni-infiltrazioni sono destinati però a portare solo maggiore disgregazione. L’inchiesta cui è sottoposto Oppenheimer e i suoi attriti con Teller ne sono un esempio.
Il pessimismo di Nolan raggiunge il suo apice: l’interazione umana sembra diventare completamente inefficiente e devoluta a un’inconsapevole autodistruzione. È interessante notare come nel precedente Tenet il mondo venga salvato da un’utopica elité-equipe iper militarizzata, dove l’informazione è assolutamente compartimentata e i rapporti umani inesistenti. L’uomo sembra diventare affidabile solo se ridotto a macchina, ingranaggio, riducendo al minimo il suo coefficiente d’imprevedibilità; in altre parole: solo se completamente de-umanizzato.
La guerra fredda di Nolan
In Oppenheimer, nell’impossibilità dell’evento-dialogo e nel ricercato senso di disarticolazione, emerge una completa sfiducia nelle strutture statali, prime cause dell’incomunicabilità. Il patriottismo e la lealtà nei confronti del Paese predicati dai personaggi sono negati dalla rigida bipartizione del film. I colori catturano la percezione soggettiva dello scienziato, mentre il bianco e nero mostra lo sguardo della sua nemesi, Strauss, negativo del protagonista. Questa dicotomia incarna efficacemente il senso di alienazione e schizofrenia dell’opera, rendendola quasi bipolare. Sguardi destinati a non trovare un punto di incontro, intrappolati in meccanismi avviati dai personaggi stessi e da cui saranno kafkianamente soverchiati. Le norme burocratiche, piegate ad appagare infantili desideri di vendetta personale, perdono di valore: vige la legge di frontiera. I duelli tra cowboy non si combattono più alla luce del sole, ma con subdoli giochi di potere in pieno stile guerra fredda. Ma la priorità resta sempre l’usurpazione.
Una ‘sfida infernale’ radioattiva
È interessante che il film rimandi costantemente all’immaginario western. Per costruire Los Alamos gli americani devono cacciare da quella terra le comunità indiane che lì celebravano i rituali funebri. In più, la cittadina ricalca fortemente l’iconografia dei villaggi del vecchio west: «Manca solo il saloon» dice la moglie di Oppenheimer. Al suo interno si creano attriti e tensioni tra i membri della comunità che ricalcano gli screzi tra soldati della fordiana Trilogia della cavalleria. Inoltre vedendo Cillian Murphy col cappello a tesa larga sul cavallo nero come se fosse il cavaliere dell’apocalisse è impossibile non pensare a un cowboy. Sembra che la realtà politica di quell’America non sia molto diversa da quella della guerra di secessione o delle guerre indiane.
I colori catturano la percezione soggettiva dello scienziato, mentre il bianco e nero mostra lo sguardo della sua nemesi, Strauss, negativo del protagonista.
All’orizzonte, l’unica promessa che pare stagliarsi è quella di una devastazione sempre più annichilente e incontrovertibile. La sola azione possibile è la rassegnazione, la contemplazione del disastro come se fosse l’ultimo e più catartico dei grandi spettacoli. Nel film, gli scienziati assistono compiaciuti ai Trinity Test come noi divertiti ci godiamo l’ultimo dei grandi blockbusters sgranocchiando pop-corn. Chissà se quest’esplosione, l’ennesima delle innumerevoli comparse sugli schermi negli ultimi anni, riuscirà a terrorizzare al punto da riportare lo spettatore alla realtà. Chissà se ci ridesterà alla scomoda concretezza contro cui Oppenheimer si è dovuto scontrare dopo l’abbaglio di quello scoppio nel deserto.
In copertina Oppenheimer © 2023 Christopher Nolan/Universal Pictures, Syncopy Films, Atlas Entertainment