A otto anni, in alternativa alle videocassette Disney, mia madre ha iniziato a propormi commedie garbate e paradossali fiabe borghesi tra filosofia e leggerezza, psicoanalisi e jazz, nelle quali era protagonista un newyorkese pieno di nevrosi, un omino dimesso, insicuro e balbuziente, che per comicità e tenerezza pareva un Chaplin del sonoro. Quelle stesse pellicole avevano accompagnato la sua adolescenza. Woody Allen è una figura alla quale sono legato fin da allora, il primo che ha destato il mio interesse per il cinema d’autore, ma all’epoca mai avrei immaginato potesse essere una figura divisiva.
La primavera scorsa Coup de chance, prima prova in lingua francese per Woody Allen, suo cinquantesimo e ultimo film (ultimo forse non solo nell’accezione di ‘più recente’, come lui stesso ha ammesso), non è stato incluso nel programma del Festival di Cannes. Thierry Frémaux, delegato generale della rassegna, in un’intervista a Le Figaro, a proposito di questa esclusione eccellente, aveva dichiarato che, se la pellicola fosse stata presentata, si sarebbero sicuramente sollevate polemiche nocive al film e a tutta la kermesse.
Quando il 4 settembre Allen ha sfilato sul red carpet al Lido di Venezia, dove Coup de chance è stato proiettato fuori concorso, il regista è stato contestato da una trentina di attivist3 del centro sociale Morion di Venezia e del movimento femminista e transfemminista Non Una Di Meno, che aveva organizzato questa azione dimostrativa contro la decisione della Biennale di dare spazio a opere di tre registi coinvolti in vicende di violenze sessuali: oltre ad Allen, Roman Polanski e Luc Besson. La manifestazione di protesta è stata dispersa dalle forze dell’ordine e dal servizio di sicurezza del festival. La sera precedente erano stati affissi a Venezia manifesti che riportavano scritte come «Isola degli stupratori», «No lions for predators» e «Coup de Chance: la justice ne fait pas son travail».
I casi di cronaca degli ultimi mesi hanno focalizzato l’attenzione pubblica sul tema della violenza di genere. Sui social, però, accanto a una larga fascia di persone che ha dimostrato sostegno a coloro che a Venezia hanno dato voce a questa istanza, molti hanno trovato che il luogo e l’occasione fossero inopportuni, altri si sono addirittura profusi in insulti e commenti riguardo la mise di chi manifestava, secondo l’atteggiamento di chi, se gli indichi la luna, guarda il dito. Insulti o sostegno anche per il regista contestato. Moltissimi, pur non essendo informati sui trascorsi di Allen, non si sono trattenuti dall’esprimere il proprio disprezzo, mescolando offese arbitrarie a giudizi morali, spesso fondati su dati inesatti, quando non completamente falsi, in un clima da forca di piazza, dove è facile che l’ignoranza giurisprudenziale si mescoli alla cattiveria fuori luogo. Altri ancora lo hanno difeso con argomentazioni ingenue e irricevibili, legate a un’ipotetica quanto impossibile separazione tra uomo e artista, o facendo appello alla pietà umana per la fragilità della vecchiaia, come se questa implicasse automaticamente un’amnistia.
Sono stati pochi quelli che, pur sostenendo che lo spazio per parlare di violenza di genere sia ovunque, dopo essersi documentati, hanno fatto presente che Woody Allen, scagionato dalle accuse di molestie ai danni della figlia adottiva Dylan Farrow trent’anni fa, non ha bisogno di nessuna amnistia, e che, in generale, sia un grave errore confondere un’accusa con una condanna e una testimonianza con una prova. Una considerazione condivisibile, tuttavia non priva di criticità, dal momento che chi è vittima di molestie sessuali a volte ha solo la propria testimonianza per provare l’abuso che ha subito e, se è vero che un’accusa non è una condanna, per contro non è neanche detto che una persona assolta sia sicuramente innocente. Ma proviamo a fare un po’ di ordine in una storia complessa per via di scelte di vita fuori dal comune, che hanno portato a una complicata struttura familiare, singolare anche per gli standard di Hollywood.
Moltissimi non si sono trattenuti dall’esprimere il proprio disprezzo, mescolando offese arbitrarie a giudizi morali, spesso fondati su dati inesatti, quando non completamente falsi, in un clima da forca di piazza, dove è facile che l’ignoranza giurisprudenziale si mescoli alla cattiveria fuori luogo.
Tutto ha origine dalla relazione tra Woody Allen e Mia Farrow, attrice protagonista in molti dei film che il regista ha girato nel periodo del loro legame, tra il 1980 e il 1992. I due, entrambi con più di un matrimonio alle spalle, senza essersi mai sposati tra loro e senza aver mai convissuto, se non per brevi periodi, hanno avuto un figlio, Ronan Farrow, il quale, però, come l’attrice stessa ha ammesso in un intervista a Vanity Fair, potrebbe essere figlio biologico di Frank Sinatra, suo primo marito, che lei avrebbe continuato a frequentare anche dopo il divorzio. Woody e Mia hanno in seguito adottato due bambini, Moses e Dylan Farrow, ma il loro rapporto di coppia si è poi interrotto per via della relazione nata tra Allen e Soon-Yi Previn, figlia adottiva di Mia Farrow e del suo secondo marito, il direttore d’orchestra André Previn. Woody e Soon-Yi sono sposati dal 1997 e hanno a loro volta due figlie adottive.
Ve l’ho detto che non sarebbe stato semplice. Molti si perdono già a questo punto: si convincono che Allen abbia sposato una delle proprie figlie, dopo averla molestata ancora minorenne, e confondono fatti, nomi e ruoli, invocando a sproposito l’incesto. In realtà, tra loro non c’è alcun legame biologico, né di adozione, e Soon-Yi Previn stessa, il cui padre adottivo è vissuto fino al 2019, ha dichiarato che, emotivamente, non ha mai vissuto la presenza di Allen nella sua vita come quella di una figura paterna. La relazione nata tra i due non era quella di un uomo maturo con una bambina manipolata, ma con una ragazza, per quanto molto più giovane di lui, comunque maggiorenne e consenziente, che 26 anni fa ha scelto di sposarlo. Sebbene il loro rapporto possa apparire sconveniente e, agli occhi di alcuni, profondamente immorale, il fatto, oltre a non costituire reato, di certo non implica automaticamente, come qualcuno, sull’onda dello sdegno, è portato a credere, che Allen, in un momento e in una circostanza diversi, abbia sicuramente abusato di un’altra persona.
Le accuse contro il regista sono emerse dopo la separazione da Mia Farrow, nel 1992, all’interno di un’aspra battaglia legale per ottenere l’affido dei figli. In un’intervista rilasciata nello stesso anno al programma televisivo 60 Minutes, Allen ha dichiarato che in diverse occasioni e in molte telefonate nel cuore della notte l’ex compagna avrebbe minacciato di ucciderlo, di farlo uccidere, di strappargli gli occhi. In un’altro momento, poco precedente gli eventi che hanno portato alla denuncia, l’attrice gli avrebbe detto: «Tu hai portato via mia figlia e io porterò via la tua». È quindi in un contesto di forte conflittualità che sono maturate contro di lui le accuse di abuso sessuale nei confronti della figlia adottiva Dylan, che all’epoca aveva sette anni. I fatti sarebbero avvenuti in assenza di Mia Farrow, nella soffitta della sua casa di campagna in Connecticut, dove l’uomo si era recato a far visita ai bambini. Nella medesima trasmissione, Woody Allen ha domandato al conduttore se trovasse logico che una persona di 57 anni, senza alcun precedente per pedofilia, si fosse recata a casa a dell’ex compagna (luogo a lui ostile, dove sarebbero stati potenziali testimoni gli altri figli e alcuni adulti) e di tutta la sua vita avesse stupidamente scelto quel momento in particolare per diventare un molestatore di bambini, abusando proprio di una dei figli per i quali stava chiedendo l’affido. Inoltre Allen è notoriamente claustrofobico, ed è per questo motivo che, come ha affermato in una dichiarazione successiva, per nessuna ragione avrebbe mai potuto salire con Dylan in quella soffitta piccola e angusta, tra tutti i luoghi della casa il più inverosimile.
Due lunghe indagini indipendenti, una condotta dalla polizia del Connecticut, avvalendosi del contributo della Clinica per gli abusi sessuali sui minori dell’Ospedale di Yale-New Haven, e l’altra portata avanti dal Dipartimento per i Servizi Sociali dello stato di New York, sono arrivate alla stessa identica conclusione, determinando che non ci fosse stata alcuna molestia. Gli esperti di una delle due equipe hanno quindi ipotizzato che quanto aveva detto la piccola Dylan potesse essere il risultato di un ambiente familiare ‘disturbato’ e di una possibile influenza della madre su una bambina vulnerabile.
Le accuse contro il regista sono emerse dopo la separazione da Mia Farrow, nel 1992, all’interno di un’aspra battaglia legale per ottenere l’affido dei figli.
Nonostante Woody Allen abbia superato una prova con la macchina della verità, che Mia Farrow ha sempre rifiutato di affrontare, si sia sottoposto a una serie di test psicologici, abbia reso disponibili i suoi file psichiatrici e soprattutto sia stato scagionato da ogni accusa, il giudice incaricato di decidere dell’affidamento ha preferito comunque concedere la custodia dei figli esclusivamente alla madre, mancando in lui l’assoluta certezza in merito a cosa fosse realmente accaduto e ritenendo inappropriato il comportamento del padre nei confronti di Dylan.
Nel periodo in cui la vicenda si è protratta sono state rilasciate da più parti dichiarazioni significative. Allen ha detto di aver ricevuto dai legali dell’ex compagna la richiesta di 7 milioni di dollari perché lasciassero cadere le accuse. Stacey Nelkin, un’attrice che il regista aveva conosciuto anni prima, ha raccontato alla stampa di essere stata contattata da Mia Farrow all’epoca della causa affinché, nonostante non fosse vero, testimoniasse di esser stata minorenne quando frequentava Allen. Dopo la sentenza del giudice tutelare, il pubblico ministero Frank Maco, che seguiva la causa per conto di Farrow, ha annunciato pubblicamente che l’attrice, benché fosse in possesso di ‘prove di colpevolezza’, avrebbe rinunciato a perseguire ulteriormente il regista, per evitare alla figlia il trauma di dover deporre in un simile processo.
La bambina infatti, all’interno del procedimento per l’affido, non era mai stata stata ascoltata come testimone e la sua versione era stata riportata da un pediatra, presso il quale la madre l’aveva accompagnata perché raccontasse l’accaduto. Pare che in un primo colloquio Dylan, forse per vergogna, gli avesse detto che il padre l’aveva toccata solamente su una spalla e, solo in un secondo momento, rientrata dopo aver trascorso qualche minuto fuori con la madre, avrebbe raccontato della molestia subita. Dylan Farrow, ha riconfermato la sua versione dei fatti nel 2014, in una lettera aperta pubblicata dal New York Times, e nelle interviste televisive che hanno fatto seguito, dando una nuova luce alle sue accuse, ora più dense di significato agli occhi del mondo perché espresse con le parole di un adulto.
Gli altri due figli, una volta cresciuti, si sono liberamente schierati l’uno da una parte, l’altro dall’altra. Moses Farrow, all’epoca quindicenne e oggi terapista familiare, si è poi espresso a difesa del padre, dichiarando di essere stato presente durante e dopo la presunta molestia. Ricorda che quel giorno in casa c’erano sei o sette persone, tutti in camere con le porte aperte, e che Allen non si era mai appartato con Dylan. Ha detto anche di aver assistito in più occasioni a momenti in cui sua madre istruiva la sorella, cercando di inculcarle l’idea che il padre fosse un pericoloso predatore sessuale, e concorda con Soon-Yi Previn nel descrivere Mia Farrow come una donna violenta e manipolatrice, che conveniva avere dalla propria parte, dato che averla contro era terribile: entrambi infatti hanno dichiarato di essere stati percossi dalla madre. Invece Ronan Farrow, che all’epoca aveva cinque anni e oggi è un giornalista premio Pulitzer, noto per aver contribuito a sollevare gli scandali sessuali legati al produttore cinematografico Harvey Weinstein, sostiene la sorella e non ha mai smesso di avversare il padre su più fronti. Nel 2020, minacciando di interrompere la propria collaborazione con la casa editrice Hachette Book, con la quale era precedentemente uscito il suo best seller sugli abusi denunciati dal movimento Me Too, è riuscito a bloccare la pubblicazione delle memorie di Woody Allen da parte dell’editore. Il libro, che già altre case editrici avevano rifiutato per timore delle possibili polemiche, è poi uscito con Arcade Publishing, ma Amazon ha preferito non commercializzarlo negli Stati Uniti.
Nel 2021 la HBO ha prodotto Allen vs Farrow, un documentario in quattro puntate di un’ora ciascuna, che vorrebbe ripercorrere la vicenda e fare ulteriormente luce sugli eventi, ma, per soddisfare il voyeurismo morboso dei telespettatori, consegna allo schermo anche polaroid e vecchi filmini di momenti sereni della loro vita privata, col commento dissonante di una musica tensiva, degenerando così nella spettacolarizzazione grottesca del disfacimento di una famiglia. Sebbene la docuserie sia stata accolta positivamente da critica e pubblico e abbia avuto grande risonanza, molti l’hanno ritenuta unilaterale e faziosa, dal momento che la maggior parte degli elementi che avrebbero potuto scagionare Allen sono stati sistematicamente taciuti. Sono stati poi ignorati del tutto quegli aspetti che potessero risultare scomodi alla narrazione della storia familiare di Mia Farrow, quali la condanna per pedofilia del fratello o la morte in circostanze tragiche di tre dei quattordici figli dell’attrice (quattro naturali e dieci adottivi).
Tam Farrow, non vedente, vietnamita, adottata da Mia a febbraio del 1992, poco dopo la rottura con Woody, è morta nel 2000, a 17 anni, per uno scompenso cardiaco a seguito di un’overdose da farmaci. Il fratello Moses sostiene che Tam si sarebbe suicidata in seguito a una lite con la madre, la quale rifiutava di farla curare per un disturbo depressivo, dicendo fosse solo ‘lunatica’. Lark Previn, che, secondo i racconti emersi durante il processo per la custodia dei figli, l’attrice avrebbe costretto a lavorare in casa, pulendo le stanze e accudendo una prole sempre più numerosa, è deceduta nel 2008, una decina di anni dopo che le era stata diagnosticata la sindrome da immuno deficienza acquisita. Thaddeus Farrow, privo dell’uso delle gambe a causa della poliomelite, adottato nel 1994 da un orfanotrofio di Calcutta, nel 2016 si è sparato un colpo di pistola al petto nella sua auto. Il documentario comprende, tra le altre, interviste a Dylan, a Mia, a Ronan, all’avvocato dell’accusa Frank Maco, ma non è presente alcun intervento di Allen, né di Moses Farrow, né di Soon-Yi Previn, i quali, a fronte dei tre anni necessari per produrre l’opera, sarebbero stati contattati per parteciparvi solo due mesi prima della messa in onda e avrebbero avuto pochi giorni per decidere se prendervi parte e offrire la propria versione. I registi del documentario hanno ammesso di aver effettuato una scelta di campo, prediligendo ‘la versione Farrow’, considerato che quella di Allen, a loro dire, era già più nota al pubblico. Woody Allen, a tal proposito, ha suggerito che dietro a una narrazione così parziale potesse esserci anche un conflitto di interessi, dal momento che Ronan Farrow nel 2018 aveva stretto proprio con la HBO un accordo triennale per produrre documentari investigativi.
Lo stigma che deriva da una accusa per abusi su minori è uno dei peggiori che possa esistere e, nonostante non si siano aggiunti nuovi elementi che possano mettere in discussione l’esito delle indagini che lo avevano scagionato – né Woody Allen sia mai stato tacciato di molestie precedentemente né negli anni successivi -, per trent’anni una ciclica esposizione al pubblico disprezzo ha danneggiato irreversibilmente la reputazione del regista nel mondo e la sua carriera negli Stati Uniti. Ad esempio, Un giorno di pioggia a New York, il cui periodo di produzione coincide con la nascita del movimento Me Too, ha subito un boicottaggio che ne ha ostacolato la distribuzione. Amazon Studios, per via delle controversie, ne ha bloccato l’uscita negli USA a tempo indeterminato. Solo dopo una causa legale, che Allen ha intentato allo studio per aver abbandonato di colpo il progetto e aver recesso, con motivazioni vaghe, un contratto per altre quattro pellicole, sono stati restituiti al regista i diritti di distribuzione del film negli Stati Uniti. Molti attori che avevano recitato in Un giorno di pioggia a New York hanno chiesto pubblicamente scusa per aver lavorato con Woody Allen, promesso di non farlo mai più in futuro e, per fare ammenda, hanno devoluto il proprio cachet ad associazioni che si occupano di aiutare le vittime di violenze sessuali. Uno tra tutti: Timothée Chalamet, il protagonista maschile, che, secondo una dichiarazione di Allen, avrebbe confessato alla sorella del regista, produttrice di questo film, di aver preso le distanze da lui nella speranza di avere maggiori possibilità di vincere un Oscar per la sua interpretazione in Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino.
Lo stigma che deriva da una accusa per abusi su minori è uno dei peggiori che possa esistere e, nonostante non si siano aggiunti nuovi elementi che possano mettere in discussione l’esito delle indagini che lo avevano scagionato, per trent’anni una ciclica esposizione al pubblico disprezzo ha danneggiato irreversibilmente la reputazione del regista nel mondo e la sua carriera negli Stati Uniti.
Nonostante a difesa di Allen si siano pubblicamente espressi Diane Keaton, Spike Lee, Joaquin Phoenix, Scarlett Johansson e Vittorio Storaro, negli anni molti altri grandi nomi di Hollywood hanno detto di essersi pentiti di aver collaborato con il regista in passato. Tra questi Kate Winslet, Colin Firth, Michael Caine, Elliot Page, Greta Gerwig… e l’elenco sarebbe ancora lungo. Quindi non è forse un caso, e neanche frutto esclusivo di una sua decisione creativa, che tutti i film di Allen usciti dopo Un giorno di pioggia a New York siano stati girati in Europa, e che l’ultimo abbia nel cast solo attori francesi.
Hollywood ci ha ormai abituati a vicende che paiono tanto più torbide quanto più sono noti i personaggi coinvolti. E quanti, tra il pubblico, dimostrano la maturità emotiva di una tifoseria da stadio e reagiscono con l’arroganza di chi è sicuro di conoscere la verità, si lanciano in giudizi sbrigativi e sentenze sommarie. Persone alle quali, citando Jep Gambardella ne La Grande Bellezza, sarei tentato di dire: «Quante certezze Stefa’, non so se invidiarti o provare una forma di ribrezzo…».
Qualche anno fa sembrava che il mostro fosse Johnny Depp, accusato dall’ex-moglie, Amber Heard, di violenza domestica e abusi sessuali. Anche allora si era riproposto il solito copione, secondo il quale la star accusata viene linciata dall’opinione pubblica e dalla stampa, che della presunzione di innocenza e della dignità umana non tengono gran conto, e poi abbandonata dalle major di Hollywood e dai colleghi. Ma, in quel frangente, la sentenza di un processo – addirittura trasmesso in live streaming – lo aveva riabilitato non soltanto in tribunale, e pare che almeno lui non si porterà il marchio dell’infamia fino alla tomba. Naturalmente, anche sul caso Depp-Heard, è uscito un documentario, questa volta targato Netflix. Vogliamo mica, per sbaglio, lasciare un po’ di dignità a qualcuno? Oggi le stesse major che avevano scacciato l’attore gli offrono cifre indecorosamente alte per riaverlo e quest’anno, il suo ultimo film, Jeanne du Barry, a differenza di quello di Woody Allen, non solo è stato accettato a Cannes, ma è stato proiettato come film d’apertura del festival. La rassegna francese, invece di trattare allo stesso modo due persone che la giustizia aveva assolto, ha messo Allen sulla ‘lista dei cattivi’ non ammessi alla selezione, equiparandolo a Polanski, che ha sulle spalle cinque accuse da parte di donne diverse ed è un condannato reo confesso per aver approfittato di una minorenne, un uomo fuggito dagli Stati Uniti che vive in Francia per evitare l’estradizione, più volte arrestato e tutt’ora nella red notice dei ricercati dall’Interpol. Francamente non mi paiono due casi paragonabili. Una presa di posizione, quella di Cannes, che sembrerebbe non essere legata agli eventi del 1992, dato che da allora Woody Allen è stato più volte invitato al festival, ma si giustifica solo con l’avversione che negli ultimi anni è via via cresciuta ovunque nei suoi confronti.
Il fatto che Woody Allen, per decenni, un po’ per creare un personaggio, un po’ perché forse lo è, nei suoi film abbia interpretato uomini dalla personalità nevrotica, che ricorrono all’analisi e alle cure di uno psichiatra, potrebbe averlo messo ulteriormente in cattiva luce agli occhi di chi cerca conferme a un giudizio che non gli spetterebbe emettere, ma ha maturato dentro di sé già da tempo. Del resto, ancora oggi, avere bisogno di supporto psicologico, purtroppo, è considerato da alcuni un’onta, una cosa che si addice a persone squilibrate, addirittura pericolose.
Hollywood ci ha ormai abituati a vicende che paiono tanto più torbide quanto più sono noti i personaggi coinvolti. E quanti, tra il pubblico, dimostrano la maturità emotiva di una tifoseria da stadio e reagiscono con l’arroganza di chi è sicuro di conoscere la verità, si lanciano in giudizi sbrigativi e sentenze sommarie
Allo stesso modo, non sono mancati e non mancano coloro che sottolineano con indignazione come sia ricorrente nelle sue opere il tema di un uomo che si innamora di una donna molto più giovane di lui e vedono in questo qualcosa di ignobile e segnatamente morboso, quasi non fosse cosa morbosa e ignobile, per cui valga la pena di indignarsi, lo strumentalizzare le opere di un artista, rivoltandogliele contro per insinuare la sua pedofilia. Un procedimento logico-deduttivo che puzza di maccartismo. Ma d’altronde si sa come agiscano i bias di conferma. Tutti noi finiamo col tenere in maggiore considerazione quelle informazioni che comprovano le nostre convinzioni e ipotesi; anch’io, che dentro di me spero nell’innocenza di quell’omino dimesso, insicuro e balbuziente. Chi vorrebbe mai pensare il contrario di un eroe della propria infanzia?
Si sa per certo che nella storia della giustizia molti innocenti sono stati condannati e, sicuramente, alcuni colpevoli saranno stati assolti. La differenza essenziale, dunque, non è tanto tra condannati e assolti, ma è tra colpevoli e innocenti. Un discrimine a volte inconoscibile, è vero. Dire che Woody Allen sia di sicuro innocente sarebbe intellettualmente disonesto, così come lo è negare che si possa essere ingiustamente accusati. Ma è corretto continuare ad accanirsi contro una persona che è stata assolta (e ora non parlo di una celebrità, ma di una persona ipotetica, magari di uno di noi) solo perché non si può escludere la possibilità che la realtà dei fatti non corrisponda alla verità giudiziaria? Oppure sarebbe un orrore?
Adesso, a ogni modo, scusatemi. Ho un impegno. Stasera esco e vado a vedere l’anteprima di un film diretto da un regista newyorkese pieno di nevrosi. Ho scelto di andarci senza sentirmi in colpa e senza mettere in dubbio la mia moralità, se dovesse addirittura piacermi. Ho scelto di farmi questo regalo, perché potrebbe essere il suo ultimo film, perché, comunque sia, non sta a me come non sta a voi sostituirci a un tribunale o a un boia e fare a pezzi un uomo.
Illustrazione di Matteo Galasso